Il 19 marzo, festa dei veri padri

21 Mar 2016 | Di | Categoria: In primo piano, In primo piano: note

Come tutte le ricorrenze, la data del 19 marzo è a rischio di lacrimuccia, tanto gonfia quanto passeggera. Solleticare i sentimenti è facile; coltivarli è fatica, intelligenza, attenzione. Il confine fra retorica e verità è sottile; lo tracciano l’esperienza e la sensibilità, le sole reti in cui restano impigliati ornamenti di plastica e ostriche false. Meglio riflettere che celebrare.

Le feste sono per chi le merita. Quindi, il 19 marzo non è il giorno degli adolescenti con i capelli grigi pieni di sogni e scarsi di amore, dei narcisi che non sanno accantonare i frutti della felicità pagata dagli altri, degli inconsapevoli che generano figli perché sono belli come bambolotti e rappresentano il gioioso arredo per completare la famiglia, degli uomini senza coraggio che scaricano sulle proprie donne ogni responsabilità o incombenza, che credono di mettere al mondo piantine capaci di crescere da sole, che fuggono perché ritengono la loro libertà un diritto superiore da non sacrificare per creare una realtà più complessa. I veri padri non sono i poveri di spirito; spesso, i veri padri sono le donne, che conoscono valore e prezzo di una nuova vita; la qualifica non è di genere, ma di generosità.

Quella del genitore è una divisa che curva la schiena, una consapevolezza che rende adulti ma costa cara.

Nella cosmogonia familiare il padre è Giove, figura di forza e potere, onnipresente nella mente ma spesso in disparte nella realtà. La sua voce si sente, o si dovrebbe sentire, quando decide, impone, consiglia. Sta nell’ombra e veglia, osserva, pronto a decidere e a essere contestato, attaccato dai figli che vuole proteggere. E’ un eroe a cui non saranno date medaglie, se non troppo tardi, e pochi si chiedono quanto sia amara la sua responsabilità, quanto si senta solo; di solito, debolezza e smarrimento non gli sono concessi. Deve saper sorridere anche quando vorrebbe solamente chiudere gli occhi e staccarsi dal mondo.

Il vero padre è chi ti stringe forte la mano, disteso su un letto d’ospedale sapendo di avere poco da vivere, per farti credere che ancora c’è e che non devi preoccuparti. E’ un uomo anziano che, per infonderti coraggio, si impone un sorriso quando non c’è speranza, intuendo dal tuo sguardo che conosci il verdetto, una verità che vorrebbe risparmiarti. Senza più forze, tenta la scalata alla vetta più alta per non farti odiare la vita. Nei suoi occhi leggi tutto e lui percepisce i tuoi denti stretti; vorrebbe salutarti in piedi in una corsia dove passeggia solo la morte.

Il vero padre è l’uomo che vedi in autobus la sera, col capo chino mentre stringe fra le gambe una busta di plastica e le luci della città gli si riflettono addosso senza illuminarlo. Pensa ai sogni dei figli che non è stato capace di aiutare, alla moglie con il vestito di sempre, ai troppi “sì” con cui ha scardinato la sua dignità, perché la scelta è un lusso a cui ha dovuto rinunciare da ragazzo.

Riconoscere un vero padre è difficile, uomo o donna che sia; molto più facile è capire chi non assumerà mai questo ruolo, chi resterà all’àncora perché troppo attaccato ai suoi piccoli orizzonti, senza allontanarsi perché l’ignoto è sole ma pure burrasca.

Il vero padre è un ciclista che arranca sotto alla pioggia e che si mostra campione soltanto all’arrivo, se è così fortunato da trovare qualcuno che lo riconosca, che abbia saputo aspettare e non se ne sia andato a mangiare un gelato dimenticando la lotta di chi lo ha portato alla festa. Per il vero padre c’è sempre la gara; però, di rado c’è un pubblico che applaude e quasi mai un podio che ne premi la sofferenza.

Al tramonto, quando i genitori sbiadiscono nell’ombra, cercheremo ancora una madre, ma ci mancherà sempre un padre, fino a vivere il paradosso di avvertirne tanto più l’assenza quanto meno avrà saputo farci da guida, odiandolo o amandolo in un bluff con noi stessi.

Quasi tutti siamo figli dell’amore: è la madre a darcelo, accettando il dolore e il rischio della morte. Nasciamo nel suo grembo ed è lì che inconsciamente vorremmo a volte tornare. La madre è sacrificio, mentre il padre sembra non dare nulla, resta in attesa di un ruolo. In realtà, il suo compito è quello della sentinella sull’altana: lancerà l’allarme se necessario, poi scenderà e inizierà a combattere; infine, passerà le armi ai figli, sperando d’essere stato in grado d’insegnare loro a sopravvivere. Oppure fuggirà, maledicendo se stesso per avere tradito la sua missione.

Lo combatteremo come un nemico per averlo come generale, lo rifiuteremo – soprattutto nell’adolescenza – per sfidarlo nella primitiva caccia al cibo, per demolire il peso delle sentenze nascoste nei suoi occhi, per affermare la nostra autonomia di adulti conquistata al prezzo della sua sostituzione. Sarà una figura scomoda che potrà riservarci anche incomprensione. La madre, invece, non sarà mai avversario e la sentiremo alleata. Lei alimenterà il motore; lui, il padre, sarà la meta nel migliore dei casi, oppure un molo da cui allontanarsi.

E’ nella nostra natura, è nei geni di ogni creatura, la lotta contro il maestro che deve accettare di lasciare il suo posto di capo. La mamma non è costretta a cedere alcun ruolo, perché lei continuerà a essere amore e calore.

Il padre è l’Ettore dell’Iliade che, senza avere origini sovrannaturali, dovrà vincere la paura e l’istinto della fuga, per gettarsi infine a combattere contro il figlio di una dea, consapevole del suo destino di vittima. Achille non insegna nulla perché vive nell’evanescenza di un mito; Ettore è l’eroe che muore per donare l’esempio in battaglia. Tutti osanneranno il vincitore; tuttavia, è dal perdente che dovremo imparare.

Verrebbe quasi da pensare a un agnello sacrificale, a un prezzo di morte imposto dalla natura per salvare la specie. Il padre può scomparire perché non è da lui che sboccia una nuova esistenza; può essere sostituto e il suo luogo è l’ombra, da cui dovrà uscire solamente in caso di bisogno, di lotta. Osserva e sorveglierà costante, costretto a giudicare per insegnare, relegato sul banco verso cui pochi guardano con affetto e molti con timore. Dovrà essere l’amorevole giudice pronto alla condanna per indicare la retta via. E’ l’indispensabile Giuda chiamato a impiccarsi per compiere il volere di Dio, per completare la realizzazione del Suo piano d’amore. Qualcuno deve sparire affinché qualcun altro viva. E’ il principio su cui si regge la perfezione dell’Universo.

La madre ci è accanto e resta con noi. Il padre è distante e forse a lui non offriremo mai una carezza, ma solo obbedienza o rifiuto. Quando la donna genererà una creatura, agli uomini più consapevoli peserà in ogni minuto la sorte di essere padri, sapendo che toccherà a loro impugnare le prime armi per difendere il rifugio, fino a che il sangue non diverrà acqua e le forze svaniranno negli affanni. Forse è questo il più generoso atto d’amore che un uomo possa compiere.

Il padre è una statua che potremo e probabilmente dovremo demolire; la madre, una base senza cui sprofonderemmo. E’ per questa legge genetica che sarebbe giusto inchinarci e ringraziarlo di restare dietro a un muro per permetterci di scegliere: una casa senza angoli è soltanto un tunnel dove la libertà è negata.

Il padre è il fiume che si sporca lungo il suo corso e può perdersi nel mondo; forse sparirà, forse dopo mille fatiche ci porterà a navigare in mare aperto con i riferimenti che ci ha regalato. La madre è la baia immobile; di lei, sapremo che c’è e che non la smarriremo; sta ferma e non fa paura perché rimane placenta, liquido amniotico che ci alimenta. Il padre dovrà farsi respiro per dare forza alle nostre gambe; poi, la sua corrente perderà vigore, fino a divenire lago o pozzanghera, fino a spegnersi in tomba senza fremiti e palpiti. Da guida, diverrà figlio e affronteremo il trauma del germoglio divenuto tronco capace di proteggere o di far cadere i rami secchi.

Saremo quel che è o è stato nostro padre. Nella matematica delle cose, la nostra condotta di figli determinerà se cresceremo come un albero così forte da conservare il suo seme più importante, oppure diverremo uno stecco spinto a salire in alto e a raggiungere grandi vette, senza mai conoscere il colore di un fiore sulla nostra corteccia.

Egli sarà il giudice che non ci lascerà mai, nemmeno quando verrà inghiottito dalla notte. Il passaggio dall’adolescenza all’età adulta sarà una prova contro di lui, perché è lui il faro da sostituire per diventare altro: non più figli, ma uomini e donne capaci di camminare da soli. La madre rimarrà un porto dalle acque accoglienti, il padre sarà una vela lontana che cercheremo con lo sguardo, per distruggerla o seguirla. Anche se si perderà in mare, continueremo a fissare l’orizzonte per intravvedere il segnale di una bussola, qualunque essa sia, saggia o maledetta.

Durante il nostro cammino, alla madre dedicheremo gli abbracci; se sarà un uomo fortunato, al padre concederemo una stretta di mano, il segno della nostra mutazione in un anello della catena che perpetua la vita. Forse non nel cuore ma di certo nella mente, un dono al padre ci sembrerà un controsenso, perché solo quando sarà vecchio e lo vedremo accasciato su un divano capiremo che è stato uno di noi, che siamo simili, che la ruota del tempo ha invertito le posizioni, che tocca a noi farci tetto contro la pioggia.

Da adulti potremo generare prole, scegliere la solitudine o la famiglia. Ma sapremo mai adottare un padre, togliendogli le vesti da re e lavandogli i piedi sporchi o corrotti nella carne? Sapremo dire addio al sovrano che apriva le strade e ci svezzava per i sentieri, riusciremo a veder cadere le gemme della sua corona e a trascinarlo a fatica verso la notte?

All’approssimarsi del buio, i veri padri restano nella memoria, con un sorriso che strugge e riscalda, con l’immagine di un veliero che ci ricorda le tempeste e quanto sia difficile mantenere dritta la rotta, sereni per avere svolto sino in fondo il nostro compito di piccoli capitani.

Modellino del veliero Amerigo Vespucci

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