Il sopruso dell’attesa

24 Giu 2012 | Di | Categoria: Opinioni

Il sergente del film Full metal jacketNoterella di vita quotidiana.
La vita ci pone spesso al centro di un bivio. Il viaggiatore che ha visto il mondo esiterà un attimo; poi, sceglierà la strada da percorrere. Chi è rimasto sempre nel suo paesello si guarderà intorno, volgerà la testa a destra ed a sinistra sperando in un segnale, non saprà decidere, tenterà un passo e poi tornerà indietro, ricomincerà a guardarsi intorno incapace di muoversi. Inizierà a leggere i nomi delle strade, si affannerà dietro a cartine e cartelloni pubblicitari, si rifugerà in un bar per chiedere aiuto.
Il meccanismo è analogo a quello che scatta nelle nostre teste quando dobbiamo distinguere ciò che è giusto da ciò che è sbagliato, quando dobbiamo giudicare il valore di una persona o di un fatto, quando si deve discernere fra il bene ed il male.
Discriminare è inevitabile, è naturale; impossibile evitarlo, perché solo un automa può permettersi il lusso della neutralità, l’apatia della macchina senza manovratore.
Se una mente è aperta ed elastica, adotterà parametri ampi, personali, basati su mille elementi. Se l’intelligenza è angusta, si farà ricorso alla metrica di uso comune, quella alla portata di qualunque bambino: il soldo, il centimetro, il chilometro, la potenza del motore, il gradino sociale, il numero dei subordinati, ecc. ecc. Le scale sono infinite e per chi nasce gregario non è un problema percorrerle tutte; anzi, è la sua vocazione. Una delle unità di misura più subdole è il minuto, perché il tempo è l’unica cosa irrecuperabile: quando passa, è impossibile riconquistarlo.
Accade così che i minus habens di questo mondo si appiglino anche ai minuti ed alle ore per avere una dimensione di sè e degli altri. Per loro, costringere il prossimo ad una immotivata attesa è indice di potenza, è il rigenerante toccasana per un ego costretto a sopirsi a giorni alterni di fronte ai più potenti. Per chi ha lavato le scale dei signori è gratificante calpestare con le scarpe sporche pavimenti appena lustrati; per chi ha dovuto e deve ancora esercitare l’inchino quale mezzo di sostentamento è un piacere sopraffare qualcuno, anche solo per un momento. Il sopruso dell’attesa, quella imposta senza ragione, quella voluta per sentirsi importanti, è uno dei più frequenti fra chi siede dietro ad una scrivania. Lo si potrebbe definire il morbo del burocrate, se in realtà non fosse l’epidemia dei pusillanimi. Può trattarsi dello scranno più alto (quasi tutte le carriere si costruiscono e si reggono sull’ossequio e sulle genuflessioni) o della sedia più malmessa: sempre e comunque le menti anguste avranno bisogno del tempo altrui per dare un senso al proprio.
Tornano in mente le quattro specie in cui don Mariano Arena classificava gli uomini, ne “Il giorno della civetta” di Sciascia. Più illuminante, però, è la famosa domanda di Totò: siamo uomini o caporali? Per capirne la sintesi geniale occorrono gli anni della maturità e non serve essere milite assolto: i gradi del caporale appariranno solari quando egli aprirà il portafogli, quando farà rombare la sua auto, quando appiccicherà appellativi fissando la cartina geografica, quando dirà (o farà rispondere dalla sua segretaria) “Richiami più tardi”, oppure “Ora sono impegnato, provi domani”.
Per chi è sopravvissuto ai soprusi e non ha il nerbo per condannarli e combatterli, ripeterli è il massimo della conquista. Il caporale infligge punizioni perché è stato una recluta e ritiene giusto che le stesse vessazioni siano subite dai novellini. A volte, si tenta di giustificare l’abuso rappresentandolo come un percorso formativo; ma, tanto minori sono le capacità intellettive, tanto più difficile sarà capire il senso della gratuità.
E’ proprio l’inutilità a marcare i contorni del sopruso dell’attesa inflitta per manifestare potenza. Rispondere subito al telefono, presentarsi puntuali ad un incontro, rispettare un appuntamento lavorativo o amicale è un segno di cedimento, di debolezza, per chi è nato portaborse e perpetua la catena della subordinazione creando altri lacchè.
In un Paese che è stato quasi sempre dominato, che ha il feudalesimo nei cromosomi, è raro trovare vassalli illuminati. Servi ci si può diventare; di sicuro, molti ci nascono.
Così, la prossima volta che ci toccherà attendere perché qualcuno ha bisogno di conferirsi un tono ed un valore posticci, armiamoci di pazienza e pensiamo, con compassione cristiana, alle infinite volte in cui la schiena del “dottore” di turno si è piegata e si piegherà ancora per poter campare.

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