La colpa della crisi non è nostra, ma dei mercati che non ci capiscono
3 Ago 2011 | Di Giuseppe | Categoria: In primo piano, In primo piano: note “Io non sono cattiva. Sono gli altri a disegnarmi così”. Come Jessica Rabbit – il fumetto della femme fatale co-protagonista del film “Chi ha incastrato Roger Rabbit?” – il premier Silvio Belusconi addossa ad altri la responsabilità della crisi che sta portando l’Italia verso il default, cioè verso la bancarotta. Parlando in aula a Montecitorio per riferire ai parlamentari sull’attuale débacle economica, il presidente del consiglio ripete la fiaba del paese dei balocchi, accreditandosi come il Pinocchio della situazione. E’ come se il capitano di una nave che si stesse inabissando rincuorasse i passeggeri dicendo: “Non siamo noi ad affondare; è il mare a sommergerci”.
Se la frase pronunciata da Jessica Rabbit in una nuvola di fumo poteva far sorridere, l’affermazione del capo del governo è di criminale stupidità: criminale perché inganna i risparmiatori e rischia di dare il via libera alla vera speculazione (in realtà, a sbarazzarsi dei titoli di stato italiani sono le grandi banche internazionali); stupida perché fa mostra di credere che basta chiudere gli occhi di fronte alla verità per cancellare la crisi, come farebbe un bimbo di 2 anni. I reali arbitri e giudici della situazione sono i fatti, cioè i mercati, e non le chiacchiere dei politici; se una famiglia è mal governata o se il capofamiglia è un manifesto imbelle, di certo non si troverà denaro in prestito per andare avanti in caso di bisogno.
Continuare a ripetere la solfa che il Paese è solido e che tutto va bene è una cantilena per fanciulli in età pre-scolare, felici di vedere il super eroe Capitan America mascherato di rosso e di blu, un costume patetico agli occhi di chi ha l’età per ragionare, per vedere e per vivere sulla propria pelle la difficoltà di arrivare a fine mese.
Altra favola da riservare ad un pubblico infantile è quella della speculazione che attacca la povera Italia con i conti in ordine. Innanzitutto, i conti non sono affatto in ordine: in poco più di tre anni, il debito pubblico è salito di circa 300 miliardi di euro, cioè quasi 580.000 miliardi di vecchie lire. Per salvare l’Alitalia che sta andando a picco (Atlantia ha svalutato di 25 milioni di euro la sua quota azionaria nella compagnia aerea di bandiera), il governo spese l’equivalente del 50% delle misure imposte dalla manovra finanziaria per il 2011, dai ticket ai rincari sui dossier titoli, ecc. L’Ici, abolita con rullo di tamburi, rischia di essere ripristinata con gli interessi, cioè con l’aggiunta della quota Irpef sulla prima casa. Il costo per il summit del G8 spostato dalla Maddalena a L’Aquila equivale per ammontare al ticket di 10 euro introdotto per le visite specialistiche. E si potrebbe continuare per molto, elencando gli sprechi, le sviste (nessuno si preoccupa di sollecitare un’asta per le frequenze digitali che in Italia vengono regalate a Mediaset, Rai e Telecom, mentre all’estero hanno fruttato allo Stato miliardi di euro) ed i harakiri di questa maggioranza (abbandonare la cultura e colpire il risparmio, unica àncora che ci tiene aggrappati all’economia occidentale).
Per quanto attiene alla presunta speculazione, è bene ricordare che il calo di valore dei titoli di Stato italiani (Bot, Btp, Cct, Ctz) ed il conseguente aumento dei tassi di interesse da pagare ai nostri creditori vanno attribuiti alla fuga dei grandi investitori istituzionali dal nostro debito pubblico. Secondo il Financial Times, nei primi sei mesi del 2011, la Deutsche Bank avrebbe tagliato l’esposizione verso le obbligazioni italiane dell’88%, per un controvalore di circa 7 miliardi di euro. Dezia, colosso bancario franco-belga, al 31 marzo 2011 aveva ridotto di 1,9 miliardi di euro la propria esposizione verso i titoli del debito pubblico italiano, scendendo a 15,6 miliardi. Commerzbank, altra grossa banca tedesca, a fine 2010 deteneva Btp e simili per 11,7 miliardi di euro; tre mesi dopo, ne possedeva per 9,4 miliardi, cioè 2,3 miliardi in meno. La sola banca in controtendenza di cui si legge sui giornali, appare la svizzera Ubs che ha più che triplicato la sua quota di titoli italiani, passando da 342 milioni di euro a 1,13 miliardi, una cifra che è comunque molto inferiore alle citate dismissioni e che rappresenta solo il 3% del giro d’affari della stessa Ubs.
Insomma, non si tratta di speculazione, ma di fuga dal “rischio Italia”.
L’augurio è che la speculazione vera non tenti nemmeno l’assalto alla scassata diligenza italica; se ciò avvenisse, andremmo a fondo in pochi mesi, nonostante i mille sacrifici che verrebbero chiesti ai cittadini.
Infine, è quasi una beffa dire che le banche italiane sono solide e che non trova giustificazione il calo di valore delle loro azioni. Le banche italiane – da Intesa San Paolo ad Unicredit – sono penalizzate dai mercati perché hanno portafogli pieni di titoli di Stato italiani. I soli primi 5 istituti di credito nazionali detengono nelle loro casse quasi 100 miliardi di euro in Btp e simili. Se i titoli di Stato si svalutano, le banche perdono e rischiano di trovarsi in seri guai.
Berlusconi farebbe meglio a riservare le favole ai suoi nipotini ed a bloccare subito il pellegrinaggio in Terra Santa a probabile carico dei contribuenti, organizzato dal ciellino Maurizio Lupi (vice presidente della Camera dei Deputati) a favore di 100 parlamentari: con l’aria che tira, sembra proprio si vada ad invocare un miracolo per risolvere la situazione, ultima speme per il moribondo Paese.