La famiglia, i suoi beni, la separazione, il divorzio

14 Mag 2014 | Di | Categoria: In primo piano, In primo piano: note

›› LA FAMIGLIA E LA LEGGE, LA SEPARAZIONE, IL DIVORZIO

Il regime dei beni

Due le vie per stabilire il regime patrimoniale: la separazione o la comunione dei beni. La scelta va fatta all’atto del matrimonio: in caso contrario scatta la comunione legale.

Per i coniugi che hanno scelto il regime di comunione legale dei beni non è facile decidere che i beni oggetto di acquisto durante il matrimonio siano soggetti o meno al regime di comunione.

Secondo le sezioni unite della Cassazione (sentenza n. 22755 del 28 ottobre 2009), l’esclusione dalla comunione può essere convenuta dai coniugi solo se il denaro impiegato per l’acquisto sia di esclusiva titolarità di uno di essi, perché, ad esempio, gli apparteneva prima del matrimonio o per essere frutto di successione o di donazione o perché derivante dall’alienazione di beni di proprietà personale del coniuge che effettua il nuovo acquisto.

Pertanto, anche se si tratta dell’acquisto di beni per l’esercizio della professione di uno dei coniugi, tali beni “cadono” in comunione se non sia impiegato denaro “personale” del coniuge in questione.

Ai sensi dell’articolo 177 del Codice civile, costituiscono oggetto della comunione legale, principalmente:

  • gli acquisti compiuti dai due coniugi insieme o separatamente durante il matrimonio, ad esclusione di quelli relativi ai beni personali;
  • i proventi dell’attività separata di ciascuno dei coniugi se, allo scioglimento della comunione, non siano stati consumati.

Secondo l’articolo 179 del Codice civile, invece, non costituiscono oggetto della comunione e sono beni personali del coniuge:

  • i beni di cui, prima del matrimonio, il coniuge era proprietario o rispetto ai quali era titolare di un diritto reale di godimento;
  • i beni acquisiti successivamente al matrimonio per effetto di donazione o successione;
  • i beni di uso strettamente personale di ciascun coniuge e i loro accessori;
  • i beni che servono all’esercizio della professione del coniuge, tranne quelli destinati alla conduzione di un’azienda facente parte della comunione;
  • i beni ottenuti a titolo di risarcimento del danno nonché la pensione attinente alla perdita parziale o totale della capacità lavorativa;
  • i beni acquisiti con il prezzo del trasferimento dei beni personali sopraelencati o col loro scambio, purché ciò sia espressamente dichiarato all’atto dell’acquisto.

L’acquisto di beni immobili o di beni mobili registrati, effettuato dopo il matrimonio, è escluso dalla comunione quando tale esclusione risulti dall’atto di acquisto se di esso sia stato parte anche l’altro coniuge. Però questa dichiarazione non basta a escludere il bene acquistato dalla comunione, in quanto occorre che, oltre a questo dato formale, vi sia anche l’effettivo utilizzo di denaro proprio del coniuge acquirente.

Il reddito personale

La comunione legale non si estende al reddito conseguito da ciascuno dei coniugi per l’attività lavorativa svolta durante il matrimonio. Il legislatore non ha infatti voluto che le regole della comunione si estendessero a ciò che è frutto del lavoro separato di ciascun coniuge.

Sul punto vanno effettuate due considerazioni:

  • se il reddito di ciascun coniuge viene impiegato in “acquisti”, per regola generale tutto ciò che è acquistato durante il matrimonio dai coniugi insieme o separatamente viene assoggettato al regime di comunione legale, indipendentemente dalla provenienza del denaro impiegato;
  • se il reddito non viene impiegato in “acquisti” (strumenti finanziari inclusi) ma viene tenuto “a disposizione”, ad esempio messo in giacenza in un conto corrente, la legge vuole che il denaro che resta nel momento in cui la comunione si scioglie divenga comune a entrambi i coniugi («comunione di residuo»).

Altre opzioni

La comunione legale e la separazione dei beni non esauriscono il novero delle possibilità concesse dalla legge per organizzare il proprio matrimonio sotto il profilo patrimoniale. I coniugi potrebbero, ad esempio, ricorrere alla «comunione convenzionale» che consente mediante un atto pubblico notarile, ricevuto in presenza di due testimoni, di modificare il regime di comunione dei beni (ferma restando l’intangibilità delle norme non derogabili) sostituendo il regime legale con un regime “concordato”.

Ad esempio, possono convenire di mettere in comunione anche le proprietà acquisite individualmente prima del matrimonio, che di regola non sono soggette al regime di comunione legale.

Va tuttavia precisato che non è possibile immettere nel regime di comunione legale:

  • i beni di uso strettamente personale di ciascun coniuge e i loro accessori;
  • i beni che servono all’esercizio della professione del coniuge, tranne quelli destinati alla conduzione di un’azienda facente parte della comunione;
  • i beni ottenuti a titolo di risarcimento del danno nonché la pensione attinente alla perdita parziale o totale della capacità lavorativa.

Inoltre, non è nemmeno possibile modificare le norme inderogabili del regime di comunione legale che sono, ad esempio, quelle relative all’amministrazione dei beni comuni (non sarebbe possibile, tra le altre, derogare alla norma che dispone il consenso congiunto per le decisioni di straordinaria amministrazione) e quelle relative all’uguaglianza delle quote (non sarebbe possibile disporre che ad un coniuge spetta una quota del 70% dei beni comuni e all’altro coniuge una quota del 30%).

La separazione dei beni

Una delle principali ragioni che inducono molti coniugi a scegliere il regime di separazione dei beni risiede nella normativa che il Codice civile riserva alla responsabilità per i debiti contratti dai coniugi stessi. Le norme del Codice civile che incidono maggiormente nella decisione sono le seguenti:

a) l’articolo 186, secondo cui i beni della comunione rispondono:

– di tutti gli obblighi derivanti dalla loro gestione;

– delle spese per il mantenimento della famiglia e per l’istruzione e l’educazione dei figli e di ogni obbligazione contratta dai coniugi, anche separatamente, nell’interesse della famiglia;

– di ogni obbligazione contratta congiuntamente dai coniugi, per qualsiasi ragione o finalità;

b) l’articolo 189, secondo cui i creditori che non trovino capienza nel patrimonio individuale del loro debitore possono soddisfarsi in via sussidiaria sui beni della comunione, fino al valore corrispondente alla quota del coniuge obbligato;

c) l’articolo 190, secondo cui i creditori possono agire in via sussidiaria sui beni personali di ciascuno dei coniugi, nella misura della metà del credito, quando i beni della comunione non sono sufficienti a soddisfare i debiti su di essa gravanti.

Questa disciplina, invece, non si applica nella separazione dei beni, e quindi:

  • delle obbligazioni personali di uno dei coniugi risponde solo il patrimonio personale di costui, mentre l’altro non viene indirettamente coinvolto nelle altrui vicende debitorie;
  • delle obbligazioni che un coniuge abbia contratto nell’interesse della famiglia, risponde solo il coniuge contraente (con i suoi beni personali e con la sua quota dei beni comuni) ma non il patrimonio personale del coniuge non contraente.

Nel caso di comunione legale, invece, non solo può accadere che i beni della comunione siano chiamati a rispondere dei debiti personali di uno dei coniugi ma delle obbligazioni della comunione può essere chiamato a rispondere il patrimonio individuale di ciascuno dei coniugi, se i beni della comunione non siano sufficienti a soddisfare le pretese dei creditori.

›› LA COPPIA VA IN CRISI

Quando il rapporto matrimoniale entra in crisi consegue la necessità per i coniugi di prendere strade diverse.

Dopo un cammino comune si aprono due percorsi distinti. Questa è la separazione sotto il profilo umano.

Dal punto di vista giuridico, invece, la separazione personale dei coniugi è il rimedio previsto dal nostro ordinamento in presenza di una crisi irrecuperabile del rapporto coniugale: essa può essere chiesta sia da uno che da entrambi i coniugi, a seconda che vi sia o no la volontà comune di separarsi.

“Art. 150 del Codice Civile – Separazione personale.

È ammessa la separazione personale dei coniugi.

La separazione può essere giudiziale o consensuale.

Il diritto di chiedere la separazione giudiziale o la omologazione

di quella consensuale spetta esclusivamente ai coniugi.”

La separazione consensuale

La separazione consensuale è l’istituto giuridico attraverso il quale marito e moglie, di comune accordo, decidono di separarsi: questo percorso presuppone quindi che entrambi i coniugi abbiano un’intesa su tutte le condizioni di separazione.

Un accordo tale da regolare tutti gli aspetti del rapporto coniugale:

  • diritti patrimoniali;
  • mantenimento del coniuge debole;
  • affidamento dei figli e loro collocazione;
  • assegnazione della casa coniugale e determinazione dell’assegno di mantenimento per i figli.

In questo caso, il tribunale provvederà solamente al controllo di legittimità dei termini raggiunti da marito e moglie per la separazione: qualora vi siano figli minorenni, la verifica del Tribunale si estenderà a garantire il rispetto delle prioritarie esigenze dei minori.

I coniugi dovranno presentare, alla cancelleria del tribunale competente per residenza di uno o di entrambi, una domanda congiunta (ricorso) che
rappresenta il loro consenso e la descrizione dei termini di separazione.

Dopo il deposito del ricorso, il presidente del tribunale fissa un’udienza alla quale i coniugi devono comparire di persona. Il presidente li sentirà, prima separatamente e poi congiuntamente, tentando di conciliarli.

Se il tentativo dovesse riuscire, verrà redatto il verbale di conciliazione. In caso contrario, si darà atto nel processo verbale sia del consenso dei coniugi alla separazione che delle condizioni contenute nell’intesa. In pratica, il giudice verificherà il contenuto dell’intesa che, se reputata non contraria all’interesse della prole, verrà formalizzata con un provvedimento di omologazione emesso in camera di consiglio.

L’ «omologa di separazione» è un provvedimento definitivo che conferisce piena efficacia agli accordi di separazione.

L’opzione della separazione consensuale è priva di conflittualità ed è molto celere: il decreto di omologa può seguire a 30-60 giorni dall’udienza e a 60-120 giorni dal deposito del ricorso.

Contro il decreto che omologa la separazione personale tra coniugi, è esclusa la possibilità di ricorrere per Cassazione, ai sensi dell’articolo 111 della Costituzione (Cassazione 10932/2008).

La separazione consensuale inizia con un accordo e si chiude con un provvedimento di omologazione da parte del tribunale. In quanto volontaria, così come sarà esperibile sia l’azione di annullamento per vizio del consenso della separazione omologata, ne sarà ammissibile la revoca da parte di uno dei coniugi (Corte d’appello di Catania, 4 gennaio 2007).

Va infine rilevato che le condizioni omologate in sede di separazione consensuale, ma anche quelle statuite in sentenza, non devono mai essere ritenute
definitive perché esse possono essere modificate o revocate: questo può avvenire in tutti i casi in cui successivamente accadono fatti che variano la situazione (anche patrimoniale) di uno dei coniugi o il rapporto con i figli.

Per ottenere la modifica degli accordi di separazione si deve depositare un ricorso in tribunale ai sensi dell’art. 710 del Codice di procedura civile.

Per fare questo è necessario rivolgersi ad un avvocato che inizierà con il ricorso un procedimento civile avente l’obbiettivo di dimostrare che la situazione economica si è modificata a svantaggio del coniuge richiedente.

È probabile, però, che il coniuge avversario non sia favorevole ad una modifica delle condizioni di separazione che mira a privarlo dell’assegno di mantenimento, o di parte di esso, oppure a togliergli la casa.

Per questo l’opposizione dell’altro coniuge è quasi scontata e si deve quindi tener conto che la causa potrebbe avere tempi e costi non certi: ricorda pertanto che, in presenza dei requisiti reddituali, l’integrale costo del processo potrebbe essere sostenuto a tuo favore dallo Stato con il gratuito patrocinio (patrocinio a spese dello stato).

La separazione giudiziale

Quando i coniugi non riescano a trovare un’intesa, non potendo presentare un’istanza congiunta che trovi la facile omologazione del giudice, uno dei due può presentare un autonomo ricorso con cui chiede al magistrato l’autorizzazione a vivere separato dall’altro coniuge.

Questo percorso disgiunto è definito dal codice “separazione giudiziale” in quanto il provvedimento finale richiesto costituisce l’esito di un procedimento contenzioso civile: una sentenza che dispone la separazione personale dei coniugi.

“Art. 151 Codice Civile – Separazione giudiziale.

La separazione può essere chiesta quando si verificano, anche indipendentemente dalla volontà di uno o di entrambi i coniugi, fatti tali da rendere intollerabile la prosecuzione della convivenza o da recare grave pregiudizio alla educazione della prole.

Il giudice, pronunziando la separazione, dichiara, ove ne ricorrano le circostanze e ne sia richiesto, a quale dei coniugi sia addebitabile la separazione, in considerazione del suo comportamento contrario ai doveri che derivano dal matrimonio.”

Trattandosi di una vera e propria causa, il ricorso dovrà contenere l’esposizione dei fatti su cui è fondata la domanda. Una volta depositato, entro 5 giorni il presidente fisserà la data di comparizione delle parti, che dovrà avvenire entro 90 giorni.

La comparizione personale dei coniugi è seguita dal tentativo di conciliazione che, se fallisce o è assente il convenuto, il presidente fisserà un’altra udienza.

Se anche a questa non si presenterà il coniuge chiamato in giudizio, la causa proseguirà dinanzi a un giudice istruttore; i coniugi saranno assistiti dai propri legali. Nel corso del processo saranno vagliate le domande dei coniugi. Il presidente adotterà, anche senza richiesta di parte, i provvedimenti necessari e urgenti nell’interesse della prole, se c’è, o dei coniugi. Inoltre potrà ascoltare i figli minori, decidendo anche sul loro affidamento temporaneo.

Tra le novità più rilevanti, la possibilità di impugnazione immediata dei provvedimenti emessi nell’udienza presidenziale, con reclamo entro 10 giorni dalla notifica. Chiusa la fase presidenziale, l’iter avrà un corso ordinario.

Al termine della causa, il tribunale emette sentenza di separazione e le eventuali pronunce accessorie (affidamento dei figli, assegno di mantenimento, assegnazione della casa coniugale).

La sentenza può essere riformata dalla Corte d’appello, con una nuova decisione che, a sua volta, può essere impugnata con ricorso in Cassazione.

A differenza della separazione consensuale, con il percorso giudiziale è consentita ai coniugi anche la possibilità di chiedere l’addebito della separazione: ciò significa che si può chiedere che vengano accertati dal giudice

  • sia la violazione degli obblighi coniugali contratti col matrimonio (infedeltà grave e notoria, abbandono ingiustificato del tetto coniugale, omessa assistenza morale, omessa cura della prole, maltrattamenti in famiglia ecc.) da parte dell’altro coniuge,
  • sia il fatto che questa violazione abbia determinato la cessazione del rapporto.

Per accertare l’esistenza delle violazioni, vi deve essere domanda espressa al giudice a seguito della quale viene realizzata una vera e propria istruttoria con documenti, testi e periti di parte: il giudice dovrà poter verificare se quanto sostenuto dal coniuge che chiede l’addebito viene confermato dalle risultanze processuali.

Qualora il processo porti a confermare la violazione degli obblighi coniugali a carico di uno dei coniugi e la cessazione del rapporto quale sua conseguenza, vi sarà l’addebito a carico del coniuge soccombente e questi non avrà diritto ad ottenere l’assegno di mantenimento (art. 156 cod. civ.) e perderà tutti i diritti ereditari a parte l’assegno vitalizio in costanza di assegno alimentare (articoli 548 e 585 cod. civ).

Separazione consensuale Separazione giudiziale
Va presentata una domanda congiunta (deposito di ricorso) alla cancelleria del tribunale competente per residenza di uno o entrambi i coniugi Il legale di uno dei due coniugi deve presentare ricorso alla cancelleria del tribunale competente per residenza di uno o entrambi i coniugi
Certificati da allegare in entrambi i casi:
1) estratto dell’atto di matrimonio;
2) certificato contestuale di residenza e stato di famiglia

Il tentativo di conciliazione

Il presidente del tribunale fissa un’udienza di comparizione per i coniugi, nel corso della quale sarà esperito un tentativo di conciliazione; vanificato il tentativo, il tribunale emette un decreto che conferisce efficacia alla separazione consensuale

La causa

Nel caso della separazione giudiziale, fallito il tentativo di conciliazione e una volta emessi i provvedimenti provvisori, sarà avviata una causa legale davanti al giudice istruttore; i coniugi saranno assistiti dai propri legali.
Nel corso del processo saranno vagliate le reciproche domande dei coniugi

L’«omologa»

Tale decreto, l’«omologa di separazione», è un provvedimento definitivo che conferisce piena efficacia agli accordi di separazione

La sentenza

Al termine della causa, il tribunale emette sentenza di separazione e le eventuali pronunce accessorie (affidamento dei figli, assegno di mantenimento, assegnazione casa coniugale).
La sentenza può essere riformata dalla Corte d’appello, con una nuova decisione che, a sua volta, può essere impugnata con ricorso in Cassazione

La separazione personale dei coniugi non fa però cessare il matrimonio, né modifica lo status giuridico di coniuge.

Più precisamente si deve dire che la separazione fa cessare alcuni obblighi nati con il matrimonio (ad esempio non si deve più convivere, cessa l’obbligo di fedeltà e si scioglie la comunione legale dei beni).

Altri obblighi, invece, continuano ad esistere, ma sono limitati o regolamentati in modo specifico e ciò vale, in particolare, per quanto riguarda i rapporti economici fra i coniugi e con i figli minori – nonché con quelli che divengono maggiorenni ma che, pur conviventi con uno dei coniugi, non sono ancora economicamente autosufficienti.

I costi

I costi preventivabili per una separazione consensuale o un divorzio congiunto con figli sono tra i 2.500 e i 3.000 euro, mentre per una separazione o un divorzio giudiziale si passa da 3.000 a 5.000 euro e oltre, tenuto conto sia del valore dei beni economici in discussione sia delle soluzioni prospettabili per la soluzione delle complicazioni esistenti nei rapporti interpersonali.

Alla parcella del legale vanno aggiunti i costi di giustizia. Dopo anni di assoluta gratuità, il decreto legge 98/2011 ha esteso il contributo unificato anche a questi giudizi prima esenti 37 euro per le separazioni consensuali, i divorzi congiunti e le richieste congiunte di una modifica ai provvedimenti che regolano la famiglia separata, e 85 euro per la separazione e il divorzio giudiziale e per tutte le modifiche dei provvedimenti in tema di famiglia che siano richiesti senza il preventivo accordo con l’altro coniuge.

La separazione personale non è definitiva

la separazione personale dei coniugi, a differenza del divorzio, ha carattere temporaneo: i coniugi, infatti, possono in ogni momento riconciliarsi.

“Art. 154 Cod. Civ. – Riconciliazione.

La riconciliazione tra i coniugi comporta l’abbandono della domanda di separazione personale già proposta.”

La riconciliazione si compie senza alcun atto formale, con una semplice condotta incompatibile con la separazione, facendo immediatamente cessare gli effetti di quest’ultima.

Per formalizzare gli effetti della riconciliazione non serve un nuovo procedimento giudiziario, comunque possibile, ma basta che i coniugi si presentino all’Ufficio di Stato Civile del Comune di residenza e rilascino una dichiarazione che attesta l’avvenuta riconciliazione.

La separazione di fatto

Può capitare che i coniugi si trovino a cessare la convivenza improvvisamente, senza provvedere ai passi necessari a dare veste giuridica al distacco (ovvero senza il ricorso consensuale o giudiziale al Tribunale).

Si ha, in questo caso, la cosiddetta “separazione di fatto”: uno o entrambi i coniugi escono dall’abitazione familiare e le loro vite procedono
separate seguendo percorsi del tutto indipendenti l’uno dall’altro.

Nella separazione di fatto i coniugi si comportano come se fossero tornati single senza attuare alcun comportamento che modifichi sotto il profilo giuridico il rapporto coniugale costituitosi con il matrimonio.

Conseguenza di questa scelta puramente materiale è che, appunto, non si genera alcuno degli effetti giuridici della “Separazione personale dei coniugi”, consensuale o giudiziale che sia.

Per questo motivo, la separazione di fatto non fa decorrere il termine che permette di chiedere il divorzio allo scadere dei tre anni dalla prima udienza di comparizione personale dei coniugi avanti il Giudice.

La separazione di fatto, come accennato, non ha conseguenze sul piano giuridico e può essere protratta per tempi indefiniti da entrambi senza che vi sia una variazione del rapporto coniugale, che resta inalterato.

Se, però, uno dei coniugi non è d’accordo in merito all’avvenuta separazione di fatto, può azionare l’avvenuta violazione dell’obbligo di convivenza connaturato al rapporto coniugale.

Per questo motivo, l’abbandono del tetto coniugale o il mantenimento di rapporti affettivi e sessuali al di fuori del matrimonio possono causare l’ addebito della separazione qualora questa venga avviata in via giudiziale.

Effetti giuridici della separazione

La separazione personale dei coniugi, consensuale o giudiziale, ha invece effetti giuridici che modificano i rapporti personali e patrimoniali tanto tra
marito e moglie quanto tra genitori e figli.

I contesti in cui la separazione personale dei coniugi produce effetti possono essere:

  • le questioni inerenti il regime patrimoniale della comunione scelta al momento del matrimonio nonché i beni acquistati in comune;
  • i diritti ereditari;
  • il diritto al mantenimento per il coniuge beneficiario;
  • il diritto agli alimenti per il coniuge beneficiario;
  • l’assegnazione ad uno dei coniugi della casa familiare;
  • l’affidamento dei figli (condiviso o meno), la convivenza con loro ed il correlato loro mantenimento.

L’assegno di mantenimento

In tutti quei casi in cui viene pronunciata la separazione con addebito, a favore del coniuge cui non è addebitato il fallimento del matrimonio e privo di adeguati redditi, il tribunale statuisce in sentenza il diritto di ricevere dall’altro coniuge un assegno di mantenimento, che gli consenta di mantenere il tenore di vita avuto in precedenza.

L’assegno di mantenimento può anche essere concordato in sede di separazione consensuale o, nei casi di separazione giudiziale senza addebito, statuito dal giudice a favore del coniuge cui non è stata addebitata la separazione, indipendentemente che questa sia stata addebitata o meno all’altro coniuge salva la presenza delle condizioni necessarie.

L’attribuzione dell’assegno di mantenimento richiede che con la separazione vengano meno i presupposti reddituali per consentire al coniuge più debole economicamente la conservazione del tenore di vita di cui precedentemente godeva, o che avrebbe dovuto godere (non avendo rilievo ante separazione il coniuge richiedente avesse tollerato, subito o comunque accettato un tenore di vita più modesto).

Premessa la necessaria presenza del requisito di “adeguatezza reddituale” ora descritto, si evidenzia che la misura dell’assegno di mantenimento viene commisurata ai redditi del coniuge obbligato ed al suo patrimonio, complessivamente inteso.

Quando sopravvengono fatti nuovi che modificano le condizioni patrimoniali di separazione, ciascuno dei coniugi può chiedere la revoca o la modifica dei provvedimenti che hanno disposto l’assegno di mantenimento.

In particolare, se il coniuge a cui favore è disposto l’assegno di mantenimento ottiene un lavoro che gli consente una redditualità idonea, il coniuge obbligato può chiedere venga disposta la revoca del provvedimento che disponeva l’assegno o la riduzione dell’assegno stesso.

Anche in questo procedimento, in presenza dei requisiti reddituali e soggettivi, si può avere l’assistenza di un avvocato pagato dallo Stato con l’ammissione al gratuito patrocinio.

Qualora il coniuge obbligato a pagare non vi provveda, l’altro coniuge può immediatamente chiedere al tribunale:

  1. l’immediato sequestro dei suoi beni ovvero il sequestro del patrimonio del coniuge può essere chiesto al giudice davanti al quale pende la separazione o al tribunale competente se invece la separazione c’è già stata;
  2. un decreto ingiuntivo e il pignoramento di case e terreni ovvero ottenere un’immediata ingiunzione di pagamento da parte del tribunale a carico del coniuge inadempiente e far pignorare gli eventuali immobili di sua proprietà e farli vendere all’asta;
  3. un decreto ingiuntivo ed il pignoramento presso terzi dei crediti ovvero ottenere un’ immediata ingiunzione di pagamento da parte del tribunale a carico del coniuge inadempiente e far ordinare a un suo debitore di pagare direttamente il mantenimento, anche versando periodicamente le somme di denaro che sono dovute (ad esempio una parte dello stipendio).

Anche questa attività può essere assistita con il Patrocinio a spese dello Stato.

La determinazione del mantenimento

I PRESUPPOSTI PER L’ATTRIBUZIONE Il coniuge ha diritto all’assegno di mantenimento se non gli è stata addebitata la crisi, e non ha redditi propri adeguati a mantenere un tenore di vita analogo a quello matrimoniale.
IL TENORE DI VITA CONIUGALE Il primo passo, per il giudice (prima di quantificare l’importo dell’assegno) sarà individuare il tenore di vita goduto dai coniugi durante la convivenza, alla luce delle possibilità di acquisto, delle abitudini sociali, o di svago.
OBBLIGATO
E BENEFICIARIO
Andrà valutata la condizione patrimoniale del coniuge obbligato a versare l’assegno in base ai redditi netti, alle proprietà immobiliari e a ogni altra utilità economica. Per stabilire invece il bisogno del beneficiario il giudice metterà sul piatto le singole posizioni economiche delle parti.
ALTRI INDICI Nella quantificazione dell’importo, si valuteranno anche l’assegnazione della casa familiare al coniuge non proprietario esclusivo; la convivenza more uxorio del beneficiario (se stabile e idonea a escluderne/ridurre lo stato di bisogno); le mutate condizioni economiche.
COSA COPRE
L’ASSEGNO
L’assegno dovrà coprire i fabbisogni quotidiani del coniuge non responsabile della crisi, cui andranno garantiti, proprio per l’assenza di addebito, mezzi economici sufficienti per conservare le abitudini sociali, o di acquisto, di cui fruiva durante il matrimonio.

Se il coniuge obbligato all’assegno non ha beni

Può capitare che, nonostante l’assegno di mantenimento per i figli sia stato posto a carico del coniuge con maggiori mezzi patrimoniali, questi venga a spogliarsi dei suoi beni e non provveda a versare l’importo mensilmente dovuto.

In questa situazione non vi sono più beni pignorabili o sequestrabili ma, magari, i nonni hanno comunque un cospicuo patrimonio di cui fanno godere indirettamente il coniuge inadempiente.

Qui bisogna ricordare che sono ex lege obbligati all’obbligo alimentare anche gli stessi nonni ed i fratelli maggiorenni in forza dell’art. 433 cod. civ.

Gli alimenti possono essere chiesti dal genitore convivente che invoca lo stato di bisogno dei figli e non è in grado di provvedere in proprio al loro mantenimento.

Essi devono essere assegnati in proporzione del bisogno di chi li domanda e delle condizioni economiche di chi deve somministrarli. Non devono tuttavia superare quanto sia necessario per la vita del richiedente, avuto però riguardo alla sua posizione sociale.

Se dopo l’assegnazione degli alimenti mutano le condizioni economiche di chi li somministra o di chi li riceve, l’autorità giudiziaria provvede per la cessazione, la riduzione o l’aumento, secondo le circostanze.

In presenza dei requisiti reddituali e soggettivi, anche questa attività può essere assistita con il Patrocinio a spese dello Stato: dopo l’ammissione al beneficio, ogni spesa del legale viene sostenuta dallo Stato.

Quando si può arrestare la rivalutazione

L’assegno di mantenimento, ai sensi dell’articolo 155 del Codice civile, è soggetto – quando manca un altro parametro indicato dalle parti o dal giudice – ad adeguamento automatico agli indici Istat, così come accade per l’assegno divorzile, in virtù di quanto previsto dall’articolo 5, comma 7, della Legge n. 898/70 (Legge sul Divorzio).

Tuttavia, posto che il Decreto legge 78/2010 ha bloccato gli adeguamenti degli stipendi pubblici sino alla fine del 2013, i dipendenti pubblici obbligati al versamento del contributo potrebbero tentare la via di un’istanza giudiziale che miri a chiedere il fermo della rivalutazione dell’assegno posto a loro carico, il cui incremento non corrisponderebbe più a un effettivo aumento della retribuzione.

Dalla spending review, dunque, arrivano effetti diretti anche sul ricalcolo del contributo di mantenimento.

Responsabilità penali se non si paga l’assegno

L’omessa prestazione dei mezzi di sussistenza da parte di chi ne aveva l’obbligo, nonché la possibilità di adempiervi, rappresenta una condotta penalmente rilevante ai sensi e per gli effetti dell’articolo 570 del Codice Penale.

Peraltro, i mezzi di sussistenza non si identificano solo con il dovuto a titolo di assegno di mantenimento o alimenti ma si possono individuare in ciò che è necessario per i bisogni alimentari della vita: vitto, alloggio, vestiario, medicinali (il tutto parametrato alle condizioni economiche di chi è tenuto ad adempiervi: l’impossibilità deve però essere provata dal coniuge obbligato e da lui non colpevolmente creata).

I presupposti sono perciò:

  • lo stato di bisogno dei soggetti beneficiari, esso non richiede l’assoluta indigenza ma la grave ed effettiva difficoltà a fare fronte ai bisogni primari della vita quotidiana;
  • la possibilità economica di adempiere del coniuge cui è assegnato l’obbligo giuridico, essa si presume e non può essere negata in ragione di una mera
    mancata redditualità: l’impossibilità economica deve essere provata a cura del coniuge inadempiente che, qualora non sia in grado di adempiere agli obblighi di assistenza economica familiare per propria colpa, non potrà escludere l’imputazione del reato di cui all’articolo 570 Cod. pen.

Nel caso di avvio di un procedimento penale per i fatti ora descritti, il coniuge ed i figli che non hanno ricevuto quanto statuito in provvedimento di separazione o divorzio, potranno costituirsi parte civile.

Anche in questo procedimento, in presenza dei requisiti reddituali e soggettivi, puoi avere l’assistenza di un avvocato pagato dallo Stato con l’ammissione al gratuito patrocinio.

Affidamento e mantenimento dei figli

Il tribunale decide l’affidamento dei figli tenendo conto dell’esclusivo interesse dei minori: per questo motivo, viene favorito il genitore che è in grado di far superare con minor trauma la fine della famiglia coniugale.

L’articolo 155 del codice civile (come modificato dalla legge n. 54 del 2006) afferma il principio della bigenitorialità, al quale i giudici che pronunciano la separazione o il divorzio devono attenersi: anche in caso di separazione personale dei genitori il figlio minore ha il diritto di mantenere un rapporto equilibrato e continuativo con ciascuno di essi, di ricevere cura, educazione e istruzione da entrambi e di conservare rapporti significativi con gli ascendenti e con i parenti di ciascun ramo genitoriale.

Nell’adottare i provvedimenti relativi alla prole, inoltre, il giudice deve tenere presente il criterio del preminente interesse morale e materiale dei figli.

Il giudice che pronuncia la separazione personale deve valutare prioritariamente la possibilità che i figli minori restino affidati a entrambi i genitori: si tratta dell’affidamento condiviso. In questo caso la potestà genitoriale è esercitata da entrambi i genitori. Le decisioni di maggiore interesse per i figli relative all’istruzione, all’educazione e alla salute sono assunte di comune accordo tenendo conto delle capacità, dell’inclinazione naturale e delle aspirazioni dei figli. In caso di disaccordo la decisione è rimessa al giudice. Limitatamente alle decisioni su questioni di ordinaria amministrazione, il giudice può stabilire che i genitori esercitino la potestà separatamente.

Il giudice – solo dopo aver escluso la possibilità di un affidamento condiviso – può stabilire a quale dei genitori i figli sono affidati: può cioè prevedere un regime di affidamento esclusivo ad uno solo dei genitori.

“Art. 155-bis. Affidamento a un solo genitore e opposizione all’affidamento condiviso.

Il giudice può disporre l’affidamento dei figli ad uno solo dei genitori qualora ritenga con provvedimento motivato che l’affidamento all’altro sia contrario all’interesse del minore.

Ciascuno dei genitori può, in qualsiasi momento, chiedere l’affidamento esclusivo quando sussistono le condizioni indicate al primo comma. Il giudice, se accoglie la domanda, dispone l’affidamento esclusivo al genitore istante, facendo salvi, per quanto possibile, i diritti del minore previsti dal primo comma dell’articolo 155. Se la domanda risulta manifestamente infondata, il giudice può considerare il comportamento del genitore istante ai fini della determinazione dei provvedimenti da adottare nell’interesse dei figli, rimanendo ferma l’applicazione dell’articolo 96 del codice di procedura civile.”

Il giudice, quindi, potrà disporre l’affido esclusivo ove ritenesse quello condiviso contrario agli interessi del minore. Se il solo conflitto tra i genitori non sarà sufficiente ad escludere l’affido condiviso, lo sarà l’incapacità genitoriale, l’assoluto disinteresse per il figlio o la profonda avversione nutrita dal minore verso un genitore.

Nel caso di affido esclusivo la potestà è esercitata dal genitore affidatario. Tuttavia, si deve ritenere che le decisioni di maggiore interesse per i figli debbano essere adottate da entrambi i coniugi e che il genitore non affidatario debba vigilare sulla istruzione ed educazione dei figli. Con la possibilità di ricorrere al giudice quando ritenga che il genitore affidatario abbia assunto decisioni pregiudizievoli all’interesse della prole.

Con riguardo al mantenimento dei figli la legge prevede che salvo accordi diversi liberamente sottoscritti dalle parti, ciascuno dei genitori provvede al mantenimento dei figli in misura proporzionale al proprio reddito; il giudice stabilisce, ove necessario, la corresponsione di un assegno periodico al fine di realizzare il principio di proporzionalità, da determinare considerando:

  1. le attuali esigenze del figlio;
  2. il tenore di vita goduto dal figlio in costanza di convivenza con entrambi i genitori;
  3. i tempi di permanenza presso ciascun genitore;
  4. le risorse economiche di entrambi i genitori;
  5. la valenza economica dei compiti domestici e di cura assunti da ciascun genitore.

L’assegno è automaticamente adeguato agli indici ISTAT in difetto di altro parametro indicato dalle parti o dal giudice.

Con riguardo al mantenimento dei figli maggiorenni ma non indipendenti economicamente la legge stabilisce che il giudice può prevedere il pagamento di un assegno periodico, che deve essere versato direttamente al figlio. La prova della non autosufficienza spetterà al figlio che chiede il mantenimento o al genitore con lui convivente.

L’affidamento dei figli naturali

Le regole per l’affidamento condiviso dei figli nati nel matrimonio si applicano anche ai figli naturali, data la loro sostanziale equiparazione a cui corrisponde un modello unitario di genitorialità (Cassazione, 10 maggio 2011, n. 10265).

Il ricorso per ottenere l’affidamento condiviso del figlio naturale si propone al Tribunale per i minorenni, che dovrà risolvere il conflitto tra i genitori e definire le linee guida sulle quali organizzare i rapporti dopo la cessazione della convivenza.

È obbligatorio farsi rappresentare da un avvocato, mentre non è necessario che i genitori abbiano cessato la loro coabitazione, essendo sufficiente dimostrare il venir meno della comunione di vita e una convivenza da separati in casa (Tribunale per i minorenni di Torino, 22 maggio 2008).

Il giudice minorile è competente anche sulla domanda di mantenimento dei figli naturali, se essa viene proposta unitamente a quella di affidamento; viceversa, la sola richiesta di assegno di mantenimento per il figlio rimane di competenza del tribunale ordinario, perché si tratta di una controversia tra soggetti maggiorenni (i genitori) e che riguarda, unicamente, diritti patrimoniali (Cassazione, 5 ottobre 2011, n. 20338).

Una volta, però, che il giudice minorile si è pronunciato sul mantenimento, ogni successiva modifica del provvedimento adottato rimane di sua competenza, anche se non viene più messo in discussione l’affidamento dei figli (Cassazione, 5 maggio 2011, n. 9936).

Il Tribunale ordinario rimane competente in ordine:

  • alla domanda con cui il padre naturale chiede la condanna dell’ex compagna a rilasciare l’immobile di sua esclusiva proprietà, già adibito a residenza familiare, e al risarcimento dei danni (Cassazione, 5 ottobre 2011, n. 20348);
  • alla domanda risarcitoria dei danni non patrimoniali patiti dalla figlia naturale a seguito della violazione dei doveri genitoriali da parte del genitore non convivente (Cassazione, 27 maggio 2011, n. 11883).

Quanto alla domanda di rimborso delle spese già interamente sostenute da uno dei genitori per il mantenimento dei figli naturali dalla loro nascita (se i genitori non hanno mai convissuto), o dalla cessazione della convivenza, fino all’azione legale di affidamento dei figli, la competenza appartiene al Tribunale ordinario, anche se tale domanda viene proposta contestualmente alla richiesta di affidamento dei figli naturali (Cassazione, 27 maggio 2011, n. 11883).

Tuttavia, alcuni Tribunali per i minorenni (Bari, Catania e Palermo) ritengono che tali domande siano intrinsecamente connesse e che la loro trattazione in un procedimento separato sarebbe contrastante con il principio di economicità e di concentrazione delle tutele (Tribunale dei minori di Catania, 23 febbraio 2011).

Per quantificare il rimborso, non può applicarsi il criterio della delega in bianco, ossia della tacita accettazione di tutte le spese sostenute basata sul disinteresse manifestato dal genitore onerato (Cassazione, 25 febbraio 2009, n.4588). Si deve tener conto, piuttosto, del complesso delle specifiche, molteplici e variabili esigenze effettivamente soddisfatte dal genitore convivente nel periodo intercorso tra la nascita del figlio e l’azione legale di affidamento (Cassazione, 4 novembre 2010, n. 22506).

L’audizione dei figli sopra i 12 anni

L’articolo 155-sexies del Codice civile stabilisce che il giudice, prima di emettere provvedimenti relativi ai figli minori, disponga l’audizione della prole che abbia compiuto i 12 anni e anche di età inferiore se è capace di discernimento.

Quanto alle modalità di svolgimento, si opterà per un’audizione mirata, finalizzata a carpire le reali esigenze del minore, che potranno anche non coincidere con i desideri espressi dal ragazzo.

Il giudice, poi, procederà all’ascolto del minore prima di decidere con quale dei genitori debba convivere (Corte d’appello di Catania, 21 maggio 2009).

Inoltre, rileva la giurisprudenza, l’audizione dei figli minorenni sarà obbligatoria nelle procedure giudiziarie che li riguardano, a meno che il giudice non motivi adeguatamente le ragioni del mancato ascolto (Cassazione, sezioni unite, n. 22238/2009).

Tuttavia, se nel processo di separazione l’opinione espressa dal fanciullo non sarà vincolante per il giudice, non essendo egli parte in senso tecnico, comunque se ne dovrà mantenere la genuinità.

Poiché la norma non richiede che sia il giudice a provvedere personalmente all’audizione, gli sarà consentito di rivolgersi a competenze esterne, quali i servizi sociali, dotate di maggiori specifiche conoscenze.

A tutela del minore sono tese le norme dirette a sanzionare i comportamenti ostruzionistici posti in essere dal genitore convivente con il figlio, nei confronti dell’altro. Sono gli effetti introdotti dalla legge sull’affidamento condiviso che ha inserito nel codice di rito l’articolo 709-ter.

Così il giudice, rilevata l’esistenza di un ostacolo o di un pregiudizio alle frequentazioni dell’un genitore, convocherà le parti con l’eventualità di mutare le modalità di affidamento.

Possibile, poi, sia l’esecuzione forzata dei provvedimenti che dispongono l’affidamento dei minori (Cassazione 10094/2008) che l’emissione di pronunce sanzionatorie a carico del genitore inadempiente, solo ammonito dal non ripetere certe condotte, o condannato al risarcimento del danno nei confronti del minore o dell’altro genitore.

La condanna risarcitoria sarà subordinata alla prova della condotta tesa a ostacolare il diritto di visita. Solo allora, andrà disposto il risarcimento del danno non patrimoniale, per sofferenza morale del soggetto e limitazione della potestà genitoriale.

Mantenimento dei figli maggiorenni

I figli hanno diritto al mantenimento anche dopo il raggiungimento della maggiore età, finché non raggiungono l’indipendenza economica. La loro posizione è assimilata dal legislatore a quella dei figli minorenni (articolo 155-quinquies del Codice civile).

Il mantenimento non consiste nella corresponsione dei soli alimenti, ma deve garantire il soddisfacimento delle attuali esigenze di vita, nonché il mantenimento del medesimo tenore di vita goduto in costanza di convivenza dei genitori (Cassazione, 14 aprile 2010, n. 8954).

In proposito, occorre realizzare un difficile bilanciamento tra l’esigenza di garantire le aspirazioni e le ansie di accrescimento professionale e culturale dei figli e l’esigenza di evitare un meccanismo che finisca per essere di eccessivo vantaggio per loro, tanto da realizzare vere e proprie rendite di posizione a discapito dei genitori (Cassazione, 24 settembre 2008, n. 24018).

L’obbligo di mantenimento persiste nei limiti temporali in cui le aspirazioni dei figli maggiorenni abbiano una ragionevole possibilità di essere realizzate, sempre che siano compatibili con le condizioni economiche della famiglia (ad esempio, il figlio trentenne, i cui genitori vivono in precarie condizioni economiche, dovrà trovarsi un lavoro, qualunque esso sia, e non potrà pretendere di continuare a studiare all’università).

Quanto alle modalità di versamento del contributo di mantenimento, non esiste alcun obbligo per il giudice di disporre il pagamento diretto a favore del figlio maggiorenne, che resta solo un’alternativa di pagamento rispetto al versamento dell’assegno nelle mani del genitore convivente con il figlio (Cassazione, 10 dicembre 2010, n. 24989).

Tale valutazione va effettuata alla stregua della situazione concreta (Cassazione, 5 ottobre 2011, n. 20408), tenendo conto delle caratteristiche del nucleo familiare (Corte di appello di Napoli, 26 settembre 2010): se il figlio non agisce in separato giudizio per ottenere il mantenimento, il genitore convivente è legittimato, nell’ambito del giudizio di separazione o divorzio, a chiedere l’assegno per la prole maggiorenne (Cassazione, 29 marzo 2011, n. 7105).

Il più delle volte i giudici hanno optato per il versamento diretto dell’assegno per i figli maggiorenni in considerazione della loro età adulta e della conflittualità tra i genitori, o nell’ipotesi in cui il figlio frequenti un corso di studi universitari fuori sede.

Gli assegni familiari vanno conteggiati

In caso di separazione dei coniugi, ai sensi dell’articolo 211 della legge n. 151/1975, il coniuge cui i figli sono affidati o, in caso di affidamento condiviso, che convivono prevalentemente con lui, ha diritto a percepire gli assegni per i figli, anche se non lavora e titolare degli assegni sia l’altro coniuge lavoratore, verificandosi una scissione fra titolarità del diritto alla corresponsione degli assegni familiari e diritto alla percezione degli stessi.

Ne consegue che, nell’ipotesi in cui il genitore onerato non corrisponda, oltre l’assegno di mantenimento, anche l’importo percepito a titolo di assegni familiari, il genitore collocatario della prole potrebbe chiedere all’Inps il pagamento diretto in suo favore di tali assegni.

I giudici di merito hanno ritenuto che, ove nella determinazione complessiva dell’assegno di mantenimento in favore dei figli si sia tenuto conto di questa posta attiva del genitore onerato, l’assegno andrà proporzionalmente ridotto del relativo ammontare ove detti assegni familiari vengano versati direttamente all’altro coniuge collocatario della prole (Tribunale di Catania del 24 aprile 2012).

È opportuno, quindi, che l’avvocato che assiste il genitore lavoratore dipendente e che percepisce gli assegni familiari, al fine di evitare sperequazioni economiche che, indichi, nei propri scritti difensivi, che il suo assistito percepisce tali assegni e chieda al giudice di tenerli in considerazione, specificando che l’assegno di mantenimento per i figli è stato quantificato tenendo conto di tale entrata economica dell’onerato, il cui ammontare andrà detratto allorché tali assegni familiari, in futuro, vengano riscossi direttamente dal genitore collocatario della prole.

Ciò in quanto, se non si dice nulla, la Cassazione ha affermato che il genitore obbligato, in sede di opposizione a precetto, non può scomputare dalle somme dovute per il mantenimento dei figli quelle a lui dovute a titolo di assegni familiari e percepite direttamente dall’altro genitore (Cassazione 25707/2011).

IL RUOLO DEI FAMILIARI

I diritti dei nonni

L’articolo 155 del Codice civile non ha attribuito ai nonni un autonomo diritto a vedere e incontrare i nipoti di età minore (Cassazione, 11 agosto 2011, n. 17191). Pertanto i nonni non hanno alcun diritto di partecipare al giudizio di separazione o di divorzio dei coniugi, né a quello di affidamento dei figli naturali, al fine di rivendicare un preteso diritto di visita dei nipoti.

È stato previsto, invece, che il giudice, nella concreta regolamentazione dell’affidamento dei figli, garantisca, nell’ambito del mantenimento di un rapporto assiduo e continuo con entrambi i genitori, anche il diritto del minore di conservare rapporti significativi con gli ascendenti, al fine di evitargli, per quanto possibile, che la separazione dei genitori produca traumi nello sviluppo della sua personalità.

Gli incontri con i nipoti

Spetterà al giudice, quindi, regolare l’attuazione di tali incontri, tenendo conto dell’interesse del minore (Cassazione, 26 settembre 2011, n. 19594); ad esempio, stabilendo la possibilità di incontrare i nonni paterni in occasione delle visite del padre.

Limitazioni legittime

Inattuazioni di tali principi, il Tribunale di Campobasso ha sospeso, senza limiti di tempo, gli incontri tra il nipote e la nonna paterna, poiché la presenza di quest’ultima avrebbe avuto una funzione destabilizzante per la crescita emotiva e relazionale del minore. Infatti, la nonna avrebbe proposto al nipote una persistente ed irrealistica idealizzazione del padre, senza dubbio fuorviante in quanto quest’ultimo era stato condannato all’ergastolo, con pena definitiva, per l’omicidio volontario del nonno paterno e della nonna materna del bambino (Tribunale di Campobasso, 15 luglio 2010).

Ne consegue che i genitori, anche se separati, possono legittimamente impedire i contatti con uno dei nonni, purché sussista una plausibile ragione fondata sull’interesse dei minori (per esempio, i nipoti potrebbero nutrire un forte sentimento di timore del nonno a causa della profonda contrapposizione e animosità da lui manifestata nei confronti dei genitori).

L’azione legale dei parenti

Se i rapporti tra nonni e nipoti sono significativi ed il genitore collocatario, senza un plausibile motivo, frapponga ostacoli a tali incontri i nonni stessi potranno proporre, dinanzi al Tribunale per i minorenni, una domanda di limitazione della potestà in danno del genitore, ai sensi dell’articolo 333 del COdice civile, al fine di garantire e tutelare il diritto del minore alla frequentazione con loro (Tribunale per i minorenni di Palermo, 15 novembre 2010).

Tuttavia, se i genitori permettono ai figli di frequentare tutti i fine settimana i nonni, la domanda di questi ultimi di avere in affidamento i minori, previo allontanamento dalla madre, non può essere accolta, in assenza di concreti pregiudizi subiti dai bambini, perché contrasta con il loro interesse a convivere con la primaria figura affettiva (Tribunale per i minorenni di Catania, 30 aprile 2010).

Obblighi di mantenimento

L’obbligo dei nonni di contribuire al mantenimento dei nipoti, fornendo ai genitori i mezzi economici necessari per adempiere ai loro doveri nei confronti dei figli, è eccezionale e circoscritto entro ben precisi limiti (Cassazione, 5 marzo 2010, n. 5364). È necessario non solo che uno dei due genitori sia rimasto inadempiente al proprio obbligo di mantenimento dei figli, ma che anche l’altro genitore non abbia le possibilità economiche di provvedervi da solo con tutte le sue risorse patrimoniali e reddituali, nonché sfruttando la sua capacità di lavoro (Cassazione, 30 settembre 2010,n. 20509).

Gli aspetti economici

Innovativi i parametri previsti per la determinazione dell’assegno chiamato “perequativo”, dovendo valutare le risorse dell’obbligato in proporzione al contributo dovuto dall’altro genitore, ai tempi di permanenza presso ciascuno, oltre che alle esigenze del figlio, necessariamente influenzate dal livello economico-sociale in cui si colloca il genitore (Cassazione 10119/2006).

Si considererà anche la valenza economica dei compiti domestici assunti da un genitore, oltre che gli oneri derivanti dalla nascita di un altro figlio del genitore obbligato, se da ciò economicamente pregiudicato (Cassazione 1595/2008).

Ancora, sarà rilevante il canone di locazione sostenuto dal genitore collocatario ma non anche la detraibilità, ai fini fiscali, dell’assegno percepito (Cassazione 17055/2007).

Il coniuge obbligato al versamento dell’assegno parteciperà, ovviamente, anche alle spese straordinarie, sulla cui rimborsabilità, ove assunte dal singolo genitore in regime di affidamento condiviso, si valuterà caso per caso (tribunale di Catania, 4 dicembre 2008).

La Corte di cassazione, con tre pronunce, ha chiarito che cosa si deve intendere per spese straordinarie. Si tratta delle spese che conseguono a eventi eccezionali della vita dei figli, con particolare riferimento alla loro salute (Cassazione, 19 luglio 1999, n. 7672); ovvero delle spese che servono per soddisfare le esigenze saltuarie (vale a dire non continuative) e imprevedibili dei figli (Cassazione, 13 marzo 2009, n. 6201); infine, sono straordinarie le spese che, per la loro rilevanza, la loro imprevedibilità e la loro imponderabilità, esulano dall’ordinario regime di vita dei figli, considerato, anche, il contesto socio-economico in cui sono inseriti (Cassazione, 8 giugno 2012, n. 9372).

Nel dettaglio, sono spese straordinarie quelle che riguardano il soggiorno all’estero per il figlio o la figlia studenti universitari di lingue, le spese per pagare a una figlia (o a un figlio), disabile al 100%, viaggi ricreativi per il suo sviluppo personale, le spese per l’organizzazione di festeggiamenti per la prima comunione o la cresima dei figli nonché quelle da sostenere per le loro cure odontoiatriche.

Se il diritto dei figli al mantenimento cessa con la loro indipendenza economica, quello del coniuge avrà effetti ben più lunghi. L’assegno, la cui domanda in caso di separazione consensuale si propone dinanzi al tribunale in cui è avvenuta l’omologa (Cassazione 22394/2008), avrà l’effetto di far conservare al coniuge privo di redditi adeguati il medesimo tenore di vita matrimoniale (Cassazione 18613/2008).

Occorrerà considerare, però, non solo le maggiori spese derivanti dalla separazione, ma anche il diritto del coniuge astrattamente onerato di mantenere il medesimo tenore di vita prima goduto (Cassazione 14081/2009).

Si valuterà, inoltre, anche laddove i figli siano cresciuti, l’impegno del genitore con cui convivono, il quale potrebbe dover sacrificare il proprio lavoro per le esigenze di gestione della convivenza (Cassazione 17415/2009).

Collegato al diritto al mantenimento, è quello a fruire di una quota del Tfr (trattamento di fine rapporto) e, dopo il decesso del coniuge, della pensione di reversibilità. L’assegno una tantum, invece, previsto in sede di divorzio, non figura in caso di separazione.

Il diritto alla pensione di reversibilità non sorge automaticamente alla morte dell’ex coniuge, ma sulla base di vari presupposti, quali:

  • l’assenza di nuove nozze;
  • il godimento dell’assegno divorzile;
  • il fatto che il rapporto lavorativo del coniuge defunto, da cui trae origine il trattamento pensionistico, sia anteriore alla sentenza di divorzio.

Quando la spesa è straordinaria

SOGGIORNO DELLA FIGLIA ALL’ESTERO PER MOTIVI DI STUDIO
(Cassazione, sentenza 19607/2011)
La spesa di soggiorno negli Usa per frequentare corsi d’inglese per una studentessa di lingue che vuole intraprendere la professione di interprete è necessaria. Tale spesa rientra nelle possibilità economiche dei genitori, considerata la loro posizione.
VIAGGIO RICREATIVO DELLA FIGLIA DISABILE
Corte di Appello di Perugia, sentenza 464/2010
Le spese per consentire alla figlia maggiorenne, affetta da una grave forma di distonia generalizzata che la rende disabile al 100%, di partecipare a viaggi ricreativi non sono voluttuarie, ma necessarie per il suo sviluppo personale. Esse, pertanto, devono qualificarsi come spese straordinarie a tutti gli effetti.
CURE ODONTOIATRICHE
Tribunale di Ragusa, sentenza 278/2011
Le spese per cure odontoiatriche sono straordinarie per antonomasia e solo un genitore poco attento alla salute ed alle esigenze in genere dei figli può contestare l’opportunità di ricorrere al dentista dapprima scelto anziché rivolgersi ad altro e più economico professionista.
PATENTE DI GUIDA E CONTRAVVENZIONI AL CODICE DELLA STRADA
Tribunale di Ragusa, sentenza 243/2011
Le spese per far conseguire al figlio la patente e per pagare la sanzione per violazione al Codice della strada commessa non rientrano nella normalità del mantenimento, innestandosi in esigenze non prevedibili dal giudice della separazione al momento della determinazione dell’assegno mensile.

Quando è ordinaria

ACQUISTO DI LIBRI SCOLASTICI AD INIZIO ANNO
Cassazione, sentenza 16664/2012
È stata confermata, siccome ritenuta ineccepibile, la ripartizione in ordinarie e straordinarie delle spese di mantenimento operata dalla pronuncia di merito, che non aveva ritenuto straordinaria la spesa di 278 euro sostenuta dalla madre per l’acquisto dei libri scolastici a inizio anno, trattandosi di una spesa prevedibile in un determinato assetto di vita.

La casa familiare

Altra questione rilevante è l’assegnazione della casa familiare. La legge n.54 del 2006 prevede che il godimento della casa familiare è attribuito tenendo prioritariamente conto dell’interesse dei figli.

L’assegnazione della casa è un provvedimento che il giudice può adottare per tutelare l’interesse dei figli minori a conservare l’habitat domestico, inteso come il centro degli affetti e delle consuetudini in cui si è espressa la vita della famiglia. Tale provvedimento, pertanto, in mancanza di figli minori, non può essere adottato per tutelare le esigenze del coniuge economicamente debole.

Non si sta assistendo, però, ad alcuna rivoluzione, prevalendo ancor oggi le assegnazioni dell’abitazione alla donna, quale genitore convivente con il minore. E se il godimento della casa familiare viene concesso sulla base del preminente interesse dei figli, allora non vi sarà diritto all’assegnazione nei casi in cui non sussistano figli o essi siano maggiorenni e autonomi.

Inoltre, ribadisce la giurisprudenza in tema di assegnazione solo parziale della casa, si deve avere esclusivo riguardo all’interesse della prole, subordinando a tale interesse le esigenze di vita dell’altro coniuge, anche se, eventualmente, collegate allo svolgimento, nell’abitazione familiare, di attività lavorativa o imprenditoriale (Cassazione 26586/2009).

La legge prevede poi che dell’assegnazione il giudice tiene conto nella regolazione dei rapporti economici tra i genitori. L’ assegnazione della casa, specialmente nelle grandi città, dove il valore degli immobili è alto, incide in maniera rilevante sugli assetti economici del divorzio. Il giudice dunque, nel liquidare gli assegni di mantenimento per i figli e/o per l’altro coniuge, deve tenere conto del fatto che, se l’obbligato al pagamento di tali assegni è il coniuge estromesso dalla casa coniugale, questi dovrà affrontare anche le spese per la propria sistemazione abitativa.

Il coniuge estromesso non perde la titolarità dei suoi diritti sulla casa in seguito al provvedimento di assegnazione: rimane proprietario o comproprietario dell’immobile. Egli perde, invece, le facoltà di abitare e di disporre materialmente della casa, perché il provvedimento di assegnazione crea un diritto di godimento a favore del coniuge assegnatario.

Il provvedimento di assegnazione, se trascritto nei registri immobiliari, può essere opposto ai terzi acquirenti dell’immobile: gli acquirenti diventano proprietari dell’immobile, ma, esattamente come il loro venditore, non ne potranno disporre materialmente fino a quando il provvedimento di assegnazione non venga revocato dall’autorità giudiziaria (quando il diritto di godimento viene meno).

Il diritto al godimento della casa familiare viene meno quando i figli divengono maggiorenni e autonomi, ma – sulla base della novella del 2006 – anche nel caso che l’assegnatario non abiti o cessi di abitare stabilmente nella casa familiare o conviva more uxorio o contragga nuovo matrimonio.

Alcune sentenze particolarmente significative

IN ASSENZA DI FIGLI
Cassazione civile
Sezione I
sentenza 24 luglio 2007
n. 16398
In materia di separazione e divorzio, il disposto dell’articolo 155-quater del Codice civile, come introdotto dalla legge 8 febbraio 2006, n. 54, facendo riferimento all’«interesse dei figli», conferma che il godimento della casa familiare è finalizzato alla tutela della prole in genere e non più all’affidamento dei figli minori, mentre, in assenza di prole, il titolo che giustifica la disponibilità della casa familiare, sia esso un diritto di godimento o un diritto reale, del quale sia titolare uno dei coniugi o entrambi, è giuridicamente irrilevante. Ne consegue che il giudice non potrà adottare con la sentenza di separazione un provvedimento di assegnazione della casa coniugale. Nella specie, la Suprema corte ha confermato la decisione del giudice di merito, il quale, in assenza di figli, ha negato che si potesse disporre in ordine all’assegnazione della casa coniugale, e ha rinviato alle norme sulla comunione e al relativo regime per l’uso e la divisione, essendo detta abitazione di proprietà comune di entrambi i coniugi.
IL NUOVO MATRIMONIO
O LA CONVIVENZA
FANNO
CESSARE L’OBBLIGO

Corte costituzionale
n. 308 del 2008
Dal contesto normativo e giurisprudenziale descritto nel testo della sentenza, «emerge il rilievo che non solo l’assegnazione della casa familiare, ma anche la cessazione della stessa, è stata sempre subordinata, pur nel silenzio della legge, a una valutazione, da parte del giudice, di rispondenza all’interesse della prole. Ne deriva che l’articolo 155-quater del Codice civile, dove interpretato, sulla base del dato letterale, nel senso che la convivenza more uxorio o il nuovo matrimonio dell’assegnatario della casa sono circostanze idonee, di per se stesse, a determinare la cessazione dell’assegnazione, non è coerente con i fini di tutela della prole, per i quali l’istituto è sorto. La coerenza della disciplina e la sua costituzionalità possono essere recuperate dove la normativa sia interpretata nel senso che l’assegnazione della casa coniugale non venga meno di diritto al verificarsi degli eventi di cui si tratta (instaurazione di una convivenza di fatto, nuovo matrimonio), ma che la decadenza della stessa sia subordinata a un giudizio di conformità all’interesse del minore. Tale lettura non fa altro che evidenziare un principio in realtà già presente nell’ordinamento, e consente di attribuire alla norma censurata un contenuto conforme ai parametri costituzionali, come del resto, già ritenuto da diversi giudici di merito e dalla prevalente dottrina».
LA DIVISIONE
DELL’ABITAZIONE

Cassazione civile
Sezione I
11 novembre 2011
n. 23631
In tema di cessazione degli effetti civili del matrimonio, non può disporsi l’assegnazione parziale della casa familiare, a meno che l’unità immobiliare sia del tutto autonoma e distinta da quella destinata ad abitazione della famiglia, ovvero questa ecceda per estensione le esigenze della famiglia e sia agevolmente divisibile. (Nella specie, la Suprema corte ha cassato la sentenza che aveva disposto l’assegnazione parziale, in favore del coniuge non affidatario dei figli, della porzione immobiliare posta al piano sottostante, pur in mancanza di prova, tra l’altro, dell’autonomia della restante parte dell’abitazione familiare).
QUANDO C’È
UN COMODATO

Cassazione civile
Sezione I
13 febbraio 2007
n. 3179
Quando un bene immobile concesso in comodato sia stato destinato a casa familiare, il successivo provvedimento di assegnazione in favore del coniuge affidatario di figli minori, oppure convivente con figli maggiorenni non autosufficienti senza loro colpa, emesso nel giudizio di separazione o di divorzio non modifica né la natura né il contenuto del titolo di godimento dell’immobile. Ciò comporta che gli effetti riconducibili al provvedimento giudiziale di assegnazione della casa, che legittima l’esclusione di uno dei coniugi dall’utilizzazione in atto e consente la concentrazione del godimento del bene in favore della persona dell’assegnatario, restano regolati dalla stessa disciplina già vigente nella fase fisiologica della vita matrimoniale. Ne consegue che ove si tratti di comodato senza la fissazione di un termine predeterminato – il cosiddetto precario -, il comodatario è tenuto a restituire il bene quando il comodante lo richieda (articolo 1810 del Codice civile) e che il diritto di recesso del proprietario può essere legittimamente esercitato.

Il peso dell’Imu

L’Imu, per espressa disposizione di legge, è a carico del genitore assegnatario (articolo 4, comma 12-quinquies, del Dl n. 16 del 2012, convertito dalla legge 44/2012). Si tratta di una chiara deroga al regime civilistico del bene, in base al quale l’assegnatario è qualificato come titolare di un mero diritto personale di godimento.

Ne consegue che l’abitazione in oggetto dovrà essere assoggettata all’Imu per intero in capo al coniuge assegnatario, a prescindere dalla titolarità formale del bene. Al contrario, il coniuge non assegnatario, anche se proprietario al 100% dell’immobile, non avrà alcun obbligo ai fini del tributo comunale.

Se il coniuge assegnatario, oltre a dimorare nell’immobile, vi risiede, avrà diritto ad applicare l’Imu con i benefici previsti per l’abitazione principale. Ciò significa che l’aliquota di base sarà quella dello 0,4% e che troverà applicazione anche la detrazione minima di 200 euro. Con delibera comunale l’aliquota può essere aumentata o ridotta dello 0,2%, mentre la detrazione può essere elevata sino a esentare completamente l’abitazione principale.

Se vi sono figli conviventi con l’assegnatario, sono previste ulteriori agevolazioni. In presenza di figli di età non superiore a 26 anni, conviventi e residenti nell’abitazione principale, si applica una maggiorazione della detrazione di base pari a 50 euro per ciascun figlio, con un tetto massimo di 400 euro. Non rileva la circostanza che i figli siano a carico. La maggiorazione sarà applicata per un periodo pari ai mesi in cui ricorrono le condizioni di legge (età, dimora e residenza nell’ex casa coniugale).

Se il coniuge non assegnatario possiede un altro immobile in cui egli dimora e risiede il bene sarà assoggettato a Imu con le medesime regole dell’abitazione principale. Anche se l’abitazione è ubicata nello stesso Comune in cui si trova l’ex casa coniugale.

Infine, per alcuni casi critici sarebbe opportuno avere delle interpretazioni ufficiali. Il primo riguarda l’ipotesi dell’ex casa coniugale detenuta in locazione e assegnata a uno dei due coniugi. In questa eventualità, si è dell’avviso che il titolo della detenzione dell’immobile resta sempre il contratto di affitto, e non il provvedimento del giudice. Di conseguenza, l’Imu dovrebbe essere assolta secondo le regole ordinarie, ovvero in capo all’effettivo proprietario e non all’assegnatario.

Se invece l’immobile assegnato, in proprietà di uno degli ex coniugi, è diverso dall’ex casa coniugale, a stretto rigore, non dovrebbe valere il criterio della soggettività passiva dell’assegnatario, ma le regole ordinarie imperniate sulla titolarità formale del bene.

La successione

La separazione dei coniugi influisce anche sui rapporti ereditari.

Nel caso di decesso del coniuge separato, il coniuge superstite ha gli stessi diritti successori del coniuge non separato. Va però rilevato che il coniuge cui è stata addebitata la separazione ha diritto soltanto ad un assegno vitalizio se al momento dell’apertura della successione godeva degli alimenti a carico del coniuge deceduto.

L’addebito della separazione consiste in una eventuale affermazione del giudice che pronuncia la separazione circa l’individuazione in capo a uno dei coniugi (o in capo a entrambi) di comportamenti contrari ai doveri che derivano dal matrimonio.

Il diritto all’assegno si estingue se il beneficiario passa a nuove nozze o viene meno il suo stato di bisogno. Qualora poi riemerga lo stato di bisogno, l’assegno può essere nuovamente attribuito.

›› IL DIVORZIO

Mentre la separazione non pone fine al rapporto coniugale, ma ne attenua solo gli effetti, il divorzio produce lo scioglimento del matrimonio o la cessazione degli effetti civili (se è stato celebrato con rito religioso riconosciuto dallo Stato).

La separazione, senza sopravvenuta riconciliazione, è il passaggio necessario per ottenere il divorzio: il termine per poter domandare quest’ultimo è, infatti il decorso di un triennio a far tempo dall’avvenuta comparizione dei coniugi davanti al presidente del tribunale nella procedura di separazione (art. 3 legge 1° dicembre 1970, n.898).

Se i coniugi trovano un accordo sulle condizioni del divorzio, possono proporre la relativa domanda con un ricorso congiunto, sottoscritto da entrambi (art. 4 legge sul divorzio).

La richiesta di divorzio può essere congiunta, da parte di entrambi i coniugi, o disgiunta , e quindi chiesta da uno solo di essi; il procedimento divorzile deve avere sempre il patrocinio di un legale per ciascun coniuge.

Nel primo caso, quello del divorzio congiunto o consensuale, i coniugi devono essere d’accordo su tutte le condizioni che verranno a regolamentarlo (economiche e relative ai figli).

Le condizioni sulle quali i coniugi devono trovare un accordo sono dunque:

  1. il consenso di entrambi al divorzio;
  2. il regime di affidamento dei figli minori e/o la scelta del genitore con il quale dovranno convivere i figli maggiorenni ma non autonomi;
  3. il calendario di visite del genitore non convivente con i figli minori;
  4. il contributo che il genitore non convivente o non affidatario dovrà pagare all’altro per il mantenimento dei figli: dovrà trattarsi di un assegno mensile, o comunque periodico, rivalutabile annualmente secondo gli indici ISTAT (o secondo altro criterio di rivalutazione automatica);
  5. l’assegnazione della casa coniugale, che deve essere effettuata preferibilmente e ove sia possibile in favore del genitore convivente con i figli minori. I coniugi possono concordare che la casa coniugale non venga assegnata ad alcuno di essi (perché, ad esempio, è stata già posta in vendita);
  6. l’eventuale assegno di divorzio – mensile o comunque periodico – in favore del coniuge sprovvisto di adeguati redditi propri o che si trovi nell’impossibilità di procurarseli per ragioni oggettive.

I coniugi possono concordare che l’assegno di divorzio venga corrisposto “una tantum”, cioè in un’unica soluzione. Il tribunale dovrà verificare che l’ammontare dell’assegno sia equo ed adeguato. I coniugi possono convenire che nessuno di essi debba corrispondere all’altro un assegno di divorzio.

Per converso, quando i coniugi non sono d’accordo sulle condizioni divorzili, si ha il divorzio giudiziale o contenzioso. In questa seconda ipotesi, come nella separazione giudiziale, il coniuge separato che intende ottenere il divorzio -a prescindere dal consenso dell’altro coniuge- può proporre la relativa domanda, per mezzo di un difensore, con un ricorso al tribunale competente (art. 4 legge sul divorzio).

La domanda di divorzio sarà poi notificata all’altro coniuge, il quale dovrà comparire all’udienza fissata davanti al presidente del tribunale. La legge prevede che entrambi i coniugi debbano comparire personalmente alla suddetta udienza davanti al presidente del tribunale, affinché quest’ultimo possa tentare di conciliarli.

Se la conciliazione non riesce o se il coniuge convenuto (al quale è stato notificato il ricorso) non compare, il presidente emetterà i provvedimenti temporanei ed urgenti che reputa opportuni nell’interesse dei coniugi e dei figli e nominerà il giudice istruttore davanti al quale proseguirà la causa.

Gli effetti personali e patrimoniali del divorzio

La sentenza di divorzio non è la naturale prosecuzione di quanto disposto in sede di separazione personale dei coniugi: il giudice avanti al quale viene depositato il ricorso per divorzio è infatti libero di confermare le condizioni statuite precedentemente o di modificarle, quindi, quantomeno in astratto, tutte le condizioni precedentemente assunte possono essere rinegoziate. Spesso, però, i coniugi chiedono che le condizioni rimangano pressoché inalterate, questo accade soprattutto se sono trascorsi pochi anni dalla separazione e se questa ha garantito un buon equilibrio nei rapporti patrimoniali, esistenziali e con i figli.

La sentenza di divorzio produce comunque i seguenti effetti personali:

  • il mutamento dello stato civile dei coniugi, che permette ad entrambi di contrarre nuove nozze;
  • la perdita del cognome del marito da parte della moglie, salvo che la stessa sia autorizzata dal giudice a continuare ad utilizzarlo, quando sussiste un interesse meritevole di tutela suo o dei figli. L’autorizzazione può essere revocata per motivi di particolare gravità (art. 5 legge sul divorzio).

La sentenza di divorzio ha i seguenti effetti patrimoniali:

  • l’eventuale corresponsione di un assegno divorzile periodico per il mantenimento del coniuge che sia privo di redditi adeguati e si trovi nell’oggettiva impossibilità di procurarseli. È possibile che esso sia sostituito da un assegno in un’unica soluzione, se le parti si accordano in tal senso e se il tribunale ritiene che la somma sia congrua;
  • la perdita dei diritti successori;
  • in caso di morte dell’ex coniuge e in assenza di un coniuge superstite cui spetti la pensione di reversibilità, il coniuge nei cui confronti è stata pronunciata la sentenza di scioglimento o di cessazione degli effetti civili del matrimonio ha diritto, se non passato a nuove nozze e sempre che sia titolare di assegno di mantenimento, alla pensione di reversibilità, purché il rapporto da cui trae origine il trattamento pensionistico sia anteriore alla sentenza (articolo 9, 2° comma, legge 898/1970).

Qualora esista un coniuge superstite avente i requisiti per la pensione di reversibilità, una quota della pensione e degli altri assegni a lui spettanti è attribuita dal tribunale, tenendo conto della durata del rapporto, al coniuge rispetto al quale è stata pronunciata la sentenza di scioglimento o di cessazione degli effetti civili del matrimonio e che sia titolare dell’assegno di mantenimento (articolo 9, 3° comma, legge 898/1970).

  • il coniuge nei cui confronti sia stata pronunciata sentenza di scioglimento o di cessazione degli effetti civili del matrimonio ha diritto, se non passato a nuove nozze e in quanto sia titolare di assegno di mantenimento, ad una percentuale dell’indennità di fine rapporto percepita dall’altro coniuge all’atto della cessazione del rapporto di lavoro anche se l’indennità viene a maturare dopo la sentenza.

Tale percentuale è pari al quaranta per cento dell’indennità totale riferibile agli anni in cui il rapporto di lavoro è coinciso con il matrimonio (articolo 12 bis, legge 898/1970).

L’assegno divorzile

Con la sentenza che pronuncia lo scioglimento o la cessazione degli effetti civili del matrimonio il tribunale può prevedere un assegno di divorzio a favore del coniuge sprovvisto di mezzi adeguati o che si trovi nell’impossibilità di procurarseli per ragioni oggettive.

L’entità dell’assegno divorzile viene commisurata ai redditi del coniuge obbligato e al suo patrimonio complessivamente inteso, nonché alle motivazioni della sentenza, all’apporto di ciascuno al patrimonio familiare in costanza di matrimonio e alla durata dello stesso.

L’impossibilità del coniuge richiedente di procurarsi adeguati mezzi di sostentamento per ragioni obiettive viene accertata con riferimento al principio per cui le condizioni economiche del coniuge più debole non devono essere deteriorate per il solo effetto del divorzio.

Una tale indagine viene condotta in sede di merito e si esprime sul piano della concretezza e dell’effettività tenendo conto di tutti gli elementi e fattori (individuali, ambientali, territoriali, economico sociali) della specifica fattispecie. Di solito è sempre previsto l’aggiornamento dell’assegno sulla base dell’indice dei Prezzi al Consumo (ISTAT) e, talvolta, anche computando la sua rivalutazione.

Il riconoscimento dell’assegno divorzile consente al coniuge di poter vantare diritti sia in ordine alla pensione di reversibilità, ai diritti successori, all’indennità di fine rapporto relativi all’altro consorte.

Le parti possono concordare che l’assegno di divorzio venga corrisposto “una tantum”, cioè in un’unica soluzione. Il tribunale dovrà verificare che l’ammontare dell’assegno sia equo ed adeguato.

Il coniuge che riceve l’assegno “una tantum” non potrà vantare successivamente alcuna pretesa patrimoniale e, in generale, i coniugi non potranno successivamente proporre nessuna domanda di contenuto economico: per esempio il beneficiario non potrà chiedere un aumento dell’assegno di divorzio, anche se mutano le condizioni degli ex coniugi, né potrà vantare pretese sul trattamento di fine rapporto percepito dall’ex coniuge; l’obbligato, d’altra parte, non potrà chiedere la riduzione dell’assegno, anche se peggiorano le sue condizioni economiche (art. 5 legge sul divorzio).

Il diritto all’assegno divorzile viene meno con le nuove nozze dell’ex coniuge beneficiario. Il principio ispiratore è che in assenza di un nuovo matrimonio, il diritto all’assegno di divorzio, in linea di principio, di per sé resta.

L’obbligo di pagare l’assegno divorzile permane pure se il richiedente abbia instaurato una convivenza more uxorio con altra persona. Esso può però esser fatto cessare se viene data la prova che il nuovo rapporto ha caratteristiche tali da fare ragionevolmente ritenere che l’ex coniuge non si trovi più in quella situazione di bisogno capace di giustificare un assegno a suo favore, per cui l’instaurazione di una simile convivenza faccia effettivamente venir meno la necessità dell’assegno ai fini della conservazione di un tenore di vita analogo a qualello ante separazione.

Qualora l’ex coniuge gravato dall’obbligo di pagare l’assegno divorzile non vi provveda sono consentiti tutti i mezzi di tutela che erano previsti per l’assegno di mantenimento in sede di separazione.

In linea teorica l’assegno divorzile potrebbe essere concesso anche a favore del coniuge cui sia stata addebitata la separazione.

L’assegno divorzile non va confuso con il contributo al mantenimento dei figli, che è sempre dovuto al genitore con cui gli stessi prevalentemente convivono.

Quando si può chiedere il divorzio

L’articolo 1 della legge n. 898/1970 afferma che «il giudice pronuncia lo scioglimento del matrimonio […] quando […] accerta che la comunione
spirituale e materiale tra i coniugi non può essere mantenuta o ricostituita».

Il tribunale prima di dichiarare lo scioglimento del vincolo matrimoniale o la cessazione degli effetti civili del matrimonio religioso, dovrà accertare l’esistenza di due condizioni.

La prima, di natura soggettiva, è costituita dalla fine:

  • della comunione materiale tra i coniugi, costituita dalla stabile convivenza, da un’organizzazione domestica comune, dal reciproco aiuto personale e dalla presenza di rapporti sessuali;
  • della comunione spirituale consistente nell’affetto reciproco, nell’ascolto, nell’aiuto e nel sostegno psicologico reciproci, nella comprensione e nella condivisione dei problemi.

La seconda, di natura oggettiva, costituita dall’esistenza di una delle cause tassativamente previste dalla legge (art. 3 legge 898/1970):

  • che sia stata omologata la separazione consensuale oppure sia stata pronunciata, con sentenza definitiva, la separazione giudiziale e siano trascorsi almeno tre anni dall’udienza presidenziale (che è la prima udienza, in ambedue i casi);
  • che uno dei coniugi sia stato condannato all’ergastolo o a qualsiasi pena detentiva per reati di particolare gravità;
  • che uno dei coniugi, cittadino straniero, abbia ottenuto nel suo paese l’annullamento o lo scioglimento del matrimonio ovvero abbia contratto nuovo matrimonio;
  • che il matrimonio non sia stato consumato;
  • che sia stato dichiarato giudizialmente il mutamento di sesso di uno dei coniugi.

In assenza del passaggio in giudicato della sentenza di separazione giudiziale o dell’omologa di quella consensuale, seppure è decorso un triennio dalla comparizione personale delle parti innanzi al presidente, la domanda di divorzio dev’ essere ritenuta inammissibile (tribunale di Trani, 30 aprile 1993).

Relativamente al computo del triennio è ormai unanime la giurisprudenza che ritiene che tale periodo dev’essere interamente decorso tra la comparizione personale dei coniugi innanzi al presidente del tribunale, nel procedimento di separazione, ed il momento di deposito del ricorso di divorzio (Cassazione n. 1260/99), altrimenti la domanda dovrà essere dichiarata inammissibile (tribunale di Monza, 11 gennaio 2005).

Il passaggio in giudicato della sentenza di separazione o l’omologa della separazione consensuale fanno presumere che la separazione tra i coniugi si sia protratta ininterrottamente (Corte d’appello di Napoli, 10 aprile 1986), spetta quindi all’altro coniuge eccepire eventuali interruzioni, che per avere efficacia ai fini del computo del triennio, devono consistere in effettive ricostituzioni della comunione di vita spirituale e materiale (Cassazione n. 19497/05 e n. 12427/04).

Tuttavia in alcuni casi (impotenza, attentato alla vita dell’altro coniuge, condanna penale per specifici reati, ecc.) pure elencati all’articolo 3 della legge 898/1970 è possibile chiedere il divorzio senza passare per la fase intermedia della separazione.

Cosa fare contro la sentenza di divorzio

Come per tutti i giudizi di primo grado è prevista la possibilità di un riesame nel merito della trattazione svolta e della decisione assunta in sentenza: l’impugnazione del provvedimento del tribunale si fa proponendo appello avanti il giudice di secondo grado (la Corte d’appello).

La sentenza di divorzio non è irrevocabile. Se sopraggiungono giustificati motivi, infatti, il tribunale può modificare le statuizioni sull’assegno e sull’affidamento dei figli.

Si dice, pertanto, che in diritto di famiglia non si forma mai il giudicato definitivo.

Dopo la sentenza di divorzio ci si può risposare

Gli uomini possono risposarsi subito dopo il passaggio in giudicato della sentenza.

Le donne invece devono attendere 300 giorni dalla pronuncia di divorzio (è il cosiddetto lutto vedovile o tempus lugendi che mira ad evitare difficoltà nell’attribuire la paternità ad eventuali figli che dovessero nascere); ciò a meno che il divorzio non sia stato pronunciato per impotenza a generare di uno dei coniugi (confronta articolo 89 cod. civ.).

Il divorzio non annulla il matrimonio religioso

Il divorzio scioglie solamente il matrimonio civile o fa cessare gli effetti civili del matrimonio religioso.

Per la Chiesa il matrimonio religioso continua però a produrre i suoi effetti fino a che questo non venga dichiarato nullo o annullato da un organo giudiziario ecclesiastico (Tribunale Ecclesiastico Regionale o Sacra Rota).

La Chiesa Cattolica e le altre religioni concordatarie non riconoscono alcuna efficacia alle sentenze dei tribunali della Repubblica in materia di matrimonio religioso.

Anche davanti ai tribunali ecclesiastici cattolici è ammesso il gratuito patrocinio a favore dei non abbienti.

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