La precaria Chiara attacca Giulia, figlia di Pietro Ichino

8 Feb 2013 | Di | Categoria: In primo piano, In primo piano: note

La precaria Chiara Di Domenico che ha attaccato Giulia Ichino, figlia di Pietro

Stavolta tocca a Giulia finire sulla graticola. Lei è figlia di Pietro Ichino, giuslavorista ed ex senatore del Pd passato nelle fila di Monti, fervido sostenitore della flessibilità e critico verso il posto fisso. Sua figlia, di 35 anni, è editor alla Mondadori ed è stata citata da Chiara Di Domenico, precaria di 37 anni, durante il seminario organizzato dal Pd nella Casa dell’Architettura a Roma. «Lo status quo è osceno – ha detto alla platea la Di Domenico – Io sono stanca di vedere “figli di”, “nipoti di”, “mariti di”, “sorelle di” in posti che non gli competono. E faccio i nomi perché non mi interessa, perché la verità è scandalosa. Pietro Ichino, che è passato a Monti, ha una figlia: si chiama Giulia Ichino. Giulia Ichino a 23 anni ha avuto un ruolo nella Mondadori come redattore interno, editor di narrativa italiana… 23 anni». Per concludere, ha ricordato una frase di don Milani: «Non andate a mangiare il pane bianco nelle strade dei poveri». Infine, ha lanciato un invito ai dirigenti ed ai candidati del Pd: «E’ bello avere privilegi, se sono al servizio di chi è più debole di voi. Altrimenti, non servono a niente, vi rendono uguali ai vostri avversari».

Le dichiarazioni di Giulia Ichino alla stampa

Giulia Ichino ha risposto all’accorato intervento con dichiarazioni alla stampa. Su Repubblica, in un articolo dal titolo “Ichino nepotista. La figlia: no, fortuna” (cliccare qui per leggere l’intervista), ha precisato «Sono fortunata, ma non raccomandata». Quindi, ha ricordato: «(Mio padre) Allora non era un uomo politico conosciuto. Avessi voluto spinte, avrei studiato nel campo di famiglia, Legge».
Giulia Ichino descrive così l’avvio della sua carriera professionale: «Ho iniziato a collaborare nel 2000 correggendo bozze da casa, grazie a due professori della Statale, dove studiavo (Vittorio Spinazzola e Gianni Turchetta, n.d.r.). Ero una pillicusa, una pignola. L’anno dopo mi fecero un co. co. co. di 12 mesi perché una redattrice rimase incinta. Poi un’altra andò in prepensionamento ed eccomi qui». Ammette, comunque, di essere stata fortunata: «Vivo con un certo disagio la mia fortuna. Certi riferimenti sono stati sgradevoli. Non rappresento l’unica storia di giovane che ce la fa, no? Assieme a me vennero assunti altri ragazzi, mica solo io».

Sul Corriere della Sera, si leggono altri particolari: “Giulia, un figlio, si dice «dispiaciuta»: «Anche perché mi faccio un discreto mazzo». E poi «non mi piace questo vittimismo che sconfina in un pubblico attacco disinformato». Si sente una privilegiata: «Noi garantiti con il posticino caldo dobbiamo essere pronti a rimetterci in gioco. Mi indigna avere la maternità e la copertura malattia, a differenza di altri»” (cliccare qui per leggere l’articolo).

Tifoserie pronte alla battaglia

Come già avvenuto in passato, il caso ha scaldato gli animi e sono scaturite polemiche.
La giovane donna è stata difesa su Twitter e su Facebook, i più noti social network della Rete, e sono numerosi i commenti che ne decantano la bravura. Gianni Riotta ha scritto: «Brutta storia attaccare la figlia di Pietro #Ichino x danneggiare il padre. E la ragazza Pd che l’ha fatto potrebbe riflettere di più».
In un post sul suo blog, Luca Sofri, figlio di Adriano Sofri, ha scritto: «Conosco Giulia Ichino e il suo lavoro in Mondadori quel tanto che basta per vedere come platealmente infondate le accuse sui presunti privilegi che avrebbe ricevuto molti anni fa».

Purtroppo, si tende a personalizzare e la rabbia – o, meglio, l’indignazione – dei tanti precari più o meno giovani esonda andando a colpire bersagli in maniera confusa. Sul versante opposto, scatta una forma di solidarietà sottile che fa blocco e induce alla difesa.

Non è una questione di persone, ma di coerenza

Nel caso specifico, solo chi conosce l’attività di Giulia Ichino può valutarne la professionalità. E chi ha avuto rapporti di lavoro con lei ne tesse le lodi.
Però, il problema è un altro. Come può una classe dirigente essere credibile invitando i lavoratori a non sclerotizzarsi sul posto fisso, quando i suoi figli godono di tutele che per altri sono un miraggio? Che atteggiamento assumere di fronte all’Ichino fustigatore della “sedia” a tempo indeterminato, se sua figlia occupa una poltrona? Torna in mente l’avventatezza della Fornero che ricorse al vocabolo inglese “choosy” per dire che i giovani sono schizzinosi nei confronti della flessibilità, mentre sua figlia e suo marito insegnano all’Università di Torino. Oppure, sempre scavando nel recente passato, si potrebbe rispolverare l’uscita di Michel Martone, sprintman della politica, che additò come «sfigato» chi non è ancora laureato a 28 anni.

Attenzione: quasi sempre a scandalizzare non sono i figli, ma i genitori, le loro prediche, le loro tesi, le loro esortazioni, che sembrano ispirati alla solita boutade “Armiamoci e partite” (titolo di un vecchio film con Franco Franchi e Ciccio Ingrassia). Quando la massa soffre è ancor più sensibile alla incoerenza, pretende che a guidarla siano persone responsabili, affidabili, perché al minimo sbandamento i non protetti, i non privilegiati, soccombono.

Come dimostrano l’esperienza quotidiana e le statistiche, l’Italia è uno dei Paesi occidentali con la minore mobilità sociale; in pratica, la maggior parte della popolazione non è posta in condizione di conquistare una fetta di benessere in più. Nella attuale situazione, la percezione del privilegio – che esiste – viene amplificata ed ascoltare parole belle ma prive di aderenza alla realtà fa scattare l’indignazione e, a volte, la ribellione.

La soliderietà trasversale dei piani alti

La reazione risentita da parte dei rampolli è comprensibile. Quando non si tratta di nepotismo sfacciato ed arrogante – come, ad esempio, quello di Renzo Bossi che a poco più di 20 anni intascava oltre 12.000 euro al mese – non si può essere troppo severi con chi denuncia di essere vittima di ingiustizia. Se il “figlio di” è in gamba e fa carriera, non lo si può bollare subito come “raccomandato” azzerandone le capacità per onta ereditaria. Certo non incita alla tolleranza l’altezzoso «Non devo giustificarmi con nessuno» sibilato da Silvia Deaglio-Ronca, figlia del ministro Fornero, a chi le chiedeva di rispondere alle critiche a lei indirizzate per i prestigiosi incarichi svolti a 37 anni: professore associato in genetica medica e responsabile della ricerca nell’istituto scientifico HuGeF, una fondazione privata senza scopo di lucro, costituita nel novembre 2007 dalla Compagnia di San Paolo, dall’Università degli Studi e dal Politecnico di Torino (cliccare qui per leggere l’articolo).

Non si può fare di ogni erba un fascio, né si deve cedere al pregiudizio, benché risulti poco credibile chi racconta di essersi fatto da solo e di non avere mai ricevuto spinte, quando la propria casa è frequentata da docenti, colleghi di papà, giornalisti, editori, ecc.
Esiste una solidarietà trasversale che prescinde dai colori politici, perché i posti su cui si siede sono contigui, siano essi consigli d’amministrazione, scranni giudiziari o cattedre universitarie. Se un tuo collega, magari con idee opposte alle tue, ti propone di esaminare il figliolo per valutarne le capacità, tu che fai? gli dici di no? Accade, ma in casi rari, rarissimi. E’ molto più probabile che si risponda: «Va bene, fallo venire domani». Non occorre un genio per intuire che è molto più comodo fare un favore ad un nemico che ad un amico, qualora l’ambiente frequentato sia il medesimo.

E’ qui il problema: in un Paese dove l’ascensore sociale è bloccato, diventa vitale superare la piccola porta d’ingresso. E’ come se una folla di persone, tutte capaci e con gli stessi diritti, si accalcasse per varcare una soglia angusta. A suscitare rabbia non sono le capacità sopravvalutate o carenti di questo o di quel figlio, ma la circostanza che soltanto ad alcuni è concesso un colloquio per essere messi alla prova.

In qualunque Paese il meccanismo delle amicizie è funzionante e spesso ben oliato. Ma negli Stati Uniti, ad esempio, chi non riesce ad ottenere un lavoro perché superato in corsa da un privilegiato può tentare altrove e può realizzarsi comunque. In Italia, invece, il mercato è piccolo, è viziato da ragnatele annose, da ingranaggi arrugginiti; così, accade che fra mille aspiranti idonei venga selezionato quello conosciuto dagli amici di mamma e papà. Il prescelto sarà pure un genio, ma è innegabile che, se avesse fatto parte della massa, forse non sarebbe mai riuscito a farsi notare per un lavoro.

La cooptazione è legittima purché non diventi sistematica

Soprattutto in ambito editoriale, dove sono richieste competenze specifiche, vige il criterio della cooptazione, cioè della chiamata diretta favorita dalla conoscenza. In sé e per sé il meccanismo non ha nulla di scandaloso: è normale che, dovendo assumere una persona di fiducia, ci si rivolga prima a coloro che tale fiducia hanno dimostrato di meritarla, anche se unicamente per appartenenza familiare. Tuttavia, la cooptazione diventa oscena e si trasforma in sopruso quando assurge a sistema prevalente.
Il confine fra nepotismo e canale preferenziale si assottiglia ed ecco che si delinea la “raccomandazione”, l’aiuto arrogante e non commisurato al valore dell’individuo. Più le occasioni di impiego sono rare e più l’esigenza di una selezione paritaria e meritocratica viene avvertita.

Non si può ignorare il risentimento di chi, consapevole delle proprie doti, sovente sperimentate sul campo, si sente defraudato di un diritto perché non ha l’entratura giusta. Quando il favore non corre sul binario parentale, lo si conquista con «prestazioni fuori orario» (come cantava Pierangelo Bertoli). La scorciatoia diventa la strada maestra e chi resta ligio alle regole rischia di rimanere al palo.
Chi non può acquistare l’indulgenza perché la vita è stata avara difficilmente si rassegna alle tribolazioni dell’inferno.
Se si vuole, lo si può chiamare gioco delle parti, naturale contrapposizione sociale in un contesto malato come quello italiano. Però non lo si può condannare, perché l’Italia è sempre stata e continua ad essere il regno di vassalli e valvassori che si tengono per mano pur di arginare la plebe.
Quanto resisterà il patto sottinteso ai piani alti della nazione? Nessuno può dirlo. Di certo, la marea monta, soprattutto nei periodi di crisi. Di certo, per non essere accusati di sfruttare privilegi, sarebbe meglio scegliere strade lontane e diverse, così come sarebbe meglio non pontificare sulla bellezza di un tetto fatto di stelle quando i propri cari dormono al caldo in un soffice letto.

Accettare la diffidenza e combattere il pregiudizio

Quello di Chiara Di Domenico non sarà l’ultimo grido di rabbia e indignazione; ce ne saranno sempre di più. I figli di Ichino, Fornero, Sofri, Celli (il direttore generale della Luiss che invitò pubblicamente il figlio ad espatriare e che se lo ritrova prima ingegnere dimissionario alla Ferrari e poi in una società di consulenza), ecc. ecc. facciano lo sforzo di accettare la diffidenza pur combattendo il pregiudizio, evitando di sbandierare una gavetta ben diversa da quella dei figli di nessuno: chi si lancia dalla torre sapendo che cadrà su un materasso nella peggiore delle ipotesi non realizzerà mai – né mai potrà capire – che cosa significhi fare un salto nel vuoto con la consapevolezza di sfracellarsi a terra in caso di errore o di scarsa fortuna. Non dover masticare la paura ogni giorno è un bel regalo della sorte, su cui è bene non sputare.
Di più osceno del privilegio, c’è solo la sua negazione.

L’intervento di Chiara Di Domenico all’assemblea del Pd a Roma

Aggiornamento del 9 febbraio 2013 – Michele Serra

Sul caso della figlia di Ichino, interviene anche Michele Serra nella sua rubrica “L’amaca” su Repubblica: «Non era meglio la vecchia lotta di classe, piuttosto che il rancoroso e fragile borbottìo che ne ha preso il posto? Parlo della stonatissima polemica contro la figlia di Pietro Ichino, che ha il torto di lavorare (pensate che scandaloso privilegio!) in una casa editrice. (…) Pensare politicamente vuol dire capire (o cercare di capire) la struttura della società e provare poi a cambiarla, non certo regolare conti personali. La polemica contro i “figli di”, con nomi e cognomi a volte congrui a volte del tutto ingiustificati, puzza di agitazione populista, non di ragionamento politico.»
Serra è uno dei tanti che hanno difeso a spada tratta Giulia Ichino, sulla cui bravura non paiono esserci dubbi (cliccare qui per leggere alcuni suoi post apprezzabili da ogni punto di vista), perché confermata da tutti coloro che hanno avuto rapporti di lavoro con lei e cioè da buona parte degli stessi commentatori.
Ovviamente, nessuno può sapere se la denuncia della Di Domenico sia stata una imboscata contro il padre della giovane editor della Mondadori, passato dal Pd a Monti, oppure se abbia esplicitato un disagio crescente benché endemico nella società italiana. Comunque sia, il problema delle corsie preferenziali rimane e si acuisce quando il lavoro scarseggia.
Parlare di «lotta di classe», di “pensiero politico”, di «agitazione populista», come ha fatto Michele Serra, sa di delirio ideologico e rievoca i vecchi samizdat dei comunisti anni ’70, che si nutrivano di paroloni e di violenza (anche solo culturale).
Il problema è un altro ed è sempre lo stesso da decine di anni: i “figli di” godono di privilegi che altri non hanno e sventolare curriculum o accampare gavette di velluto serve a nulla. Semmai, proprio la difesa strenua, insinuante, demolitrice, mostra il segno di una casta trasversale sempre pronta ad innalzare barricate per proteggersi. Lotta di classe? Macché. Solo problemi quotidiani vissuti con rabbia da gran parte della popolazione, soprattutto giovane.
Le parole più sagge sembrano essere state spese – sempre oggi – da Massimo Gramellini su La Stampa: «Essere “figli di” non è una colpa né un merito. E’ un fatto. Nella vita avrai più opportunità degli altri e pagherai questo privilegio con la maldicenza. E’ stato e sarà sempre così.»
Serra fa ironia sullo «scandaloso privilegio»? Conosco decine di persone che, se ottenessero lo «scandaloso privilegio» di lavorare alla Mondadori come editor, andrebbero a piedi a Lourdes per ringraziare il Cielo del miracolo ricevuto.

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2 commenti
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  1. Grande emozione mi ha dato la Chiara ho ascoltato l’intervento attentamente che é quello che conta ,si capisce da qui quanto sia distante la politica dalla gente personalmente il Pd mi fa venire i brividi non per la base ma per i vertici . Essendo di sinistra comunque da quando sono nato questa volta non li voterò . Mi fanno ricordare che loro sono con le spalle coperte e noi facciamo la fame…… Brava Chiara ti rispetto e hai detto grandi cose con poche parole… É ora che questi se ne vadano(spero) scrivo dalla provincia di Lodi (terzo mondo anzi loro vanno bene)
    Agenda Sveglia Italia. Daniele

    Risposta

    Grazie per il suo commento in merito a questo episodio che, almeno sui social network, ha scatenato un vespaio (l’ho verificato giusto qualche ora fa).

  2. lasciamo stare la figlia, il senatore ichino eletto nel pd , con i voti del centrosinistra, si sarebbe dovuto dimettere da senatore quando è passato a scelta civica, lasciando il comodo e privilegiato scranno parlamentare

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