L’Eni paga una penale di 3 miliardi
7 Dic 2010 | Di Giuseppe | Categoria: In primo piano, In primo piano: news“…E’ un fatto – inedito – che l’Eni ha da poco pagato una penale da 3 miliardi sul gas russo non ritirato perché esoso rispetto ai prezzi di mercato“. La notizia è contenuta in un articolo firmato da Andrea Greco e pubblicato il 6 dicembre 2010 nell’inserto “Affari e Finanza” di Repubblica. Il titolo è chiaro: “Scaroni e Putin / la ‘penale’ sul gas – IL RETROSCENA” (cliccare qui per leggere il testo sul sito di Repubblica, oppure cliccare qui per leggerlo nella rassegna stampa del Ministero delle Finanze).
Per i più pignoli, si può aggiungere che si tratta di una clausola chiamata “take or pay” (cioè prendi o paga), in base alla quale l’acquirente si impegna a “ritirare un quantitativo minimo del gas ai prezzi convenuti, o a versare una salata cauzione – fino all’80% del prezzo – se non si acquista“. “Secondo fonti ritenute attendibili – come si legge nell’articolo di Greco – Eni qualche mese fa ha negoziato a Mosca una penale una tantum da 3 miliardi. Denari versati per il gas che a questi prezzi non si può vendere, nella speranza di ritirarne di più in futuro e compensare la cifra. La somma dovrebbe comparire nel bilancio 2010, come partita a credito verso Gazprom“.
Le rivelazioni di WikiLeaks riaccendono quindi i riflettori sull’operato dell’Eni, l’Ente Nazionale Idrocarburi, di cui lo Stato detiene circa il 30% delle azioni e di cui dal 2006 è amministratore delegato Paolo Scaroni.
Gli stretti rapporti fra Berlusconi e Putin, che preoccupano la Segreteria di Stato degli Usa, non sembrano portare bene alla multinazionale creata da Enrico Mattei, anche perché la scelta di costruire enormi gasdotti si sta rivelando anti-economica rispetto all’utilizzo di navi metaniere e di rigassificatori (in pratica, il gas viene immagazzinato allo stato liquido, trasportato via mare e poi riportato allo stato originario da impianti situati nelle zone di consumo).
Va ricordato che nel 2007 l’Eni ha firmato un accordo con la compagnia petrolifera russa Gazprom, con cui è stato formalizzato il prolungamento delle forniture di gas e con cui si è dato vita al consorzio South Stream, di cui le due aziende sono socie a livello paritetico. Il faraonico progetto prevede una spesa di 20 miliardi di dollari e la costruzione di un gasdotto che aggiri la frontiera ucraina, passando sotto al Mar Nero (un tracciato necessario a causa delle rivendicazioni dell’Ucraina, che qualche anno fa portarono alla guerra del gas ed alla paventata interruzione delle forniture all’Europa).
Ora, però, il mega-progetto South Stream non appare così conveniente da un punto di vista economico (va ricordato che pure l’Algeria è un fornitore di gas), senza considerare che esso aumenterebbe la dipendenza italiana dalle fonti energetiche russe, le quali già soddisfano un terzo del fabbisogno nazionale. Il potere, si sa, lo detiene chi può aprire e chiudere i rubinetti, come Mosca ha imparato a sue spese durante il braccio di ferro con l’Ucraina per i diritti di passaggio.
Per la società del cane a sei zampe si profila un periodo di scelte non facili, rese ancora più cruciali dalle rivelazioni del gruppo di Assange e dalla forte attenzione che il Dipartimento di Stato degli Stati Uniti sta focalizzando sulle politiche energetiche italiane e sui legami fra Berlusconi e Putin.
Purtroppo, il momento non è facile neppure per i cittadini italiani. Se la notizia corrisponde a verità (la cifra è di quelle che fanno sobbalzare comuni mortali e mercati finanziari), i tre miliardi di euro o dollari – non è specificato – usciranno dalle tasche di consumatori, in un modo o nell’altro.