Non siamo tutti Sallusti

27 Set 2012 | Di | Categoria: Opinioni

L'ex direttore di Libero, Alessandro SallustiGli intellettuali da bar e da parrucchieria hanno adottato una nuova espressione: reato d’opinione. Il popolino delle crociate – quello che invoca il diritto alla privacy senza conoscerne le norme e che invita alla “vergogna” quando non sa che altro dire – crede che nei reati d’opinione incappino tutti coloro che esprimono le proprie idee. Basta un paio di parole, basta uno slogan, ed ecco che il gregge bela.

Proprio ai “quaquaraquà” si rivolge Il Giornale nella sua battaglia per la santificazione di Alessandro Sallusti, lo stesso giornalista che auspicava il carcere per i colleghi pronti a pubblicare le intercettazioni telefoniche. Nella prima pagina del sito del quotidiano diretto dal “beato”, oggi si nota in alto una fascia rossa a tutta pagina, in cui si invitano i lettori a difendere la propria libertà ed a sottoscrivere su Twitter l’hashtag #SiamotuttiSallusti.

La campagna è congegnata bene (cliccare qui) e non c’è da stupirsi se ad essa aderiranno da Destra e da Sinistra, passando per il Centro presidiato dai cattolici alla rinfusa. L’operazione si basa su una premessa: spacciare il reato di diffamazione per reato d’opinione. Non solo; si fa appello al dovere di colleganza fra giornalisti. Infatti, Marco Travaglio ha subito risposto alla chiamata, mentre Giovanni Valentini su Repubblica ha scritto oggi, 27 settembre, una prolissa reprimenda contro quello che ritiene un obbrobrio giuridico. In sostanza, si tenta di far passare la stampa per l’incolpevole vittima delle negligenze del legislatore (e, quindi, dei politici, come impone la… moda).
In realtà, si sta assistendo alla creazione di una delle pagine più fosche e false del giornalismo italiano, il quale si arrocca come una delle troppe caste a cui si deve la rovina del Paese.

Infine, sempre oggi, 27 settembre 2012, è stata scoperta la ciliegina sulla torta: Renato Farina, deputato Pdl e giornalista radiato dall’Albo perché informatore prezzolato dei Servizi segreti con il nome in codice di Betulla, svela di essere lui l’anonimo Dreyfus che ha scatenato la querelle.
Invece di scagionare l’esangue Sallusti, a lume di logica ne ha aggravato la posizione, perché l’ex direttore di “Libero” ha consentito ad un iscritto ritenuto indegno dall’Ordine di firmare un commento, esercitando una professione inibitagli con provvedimento disciplinare.

Il titolo a tutta pagina pubblicato da Il Giornale

I fatti

17 febbraio 2007 – Il quotidiano La Stampa dà notizia di una ragazzina con genitori extracomunitari che abortisce dopo una sentenza emessa dal giudice tutelare di Torino, Cocilovo.

17 febbraio 2007 – Come precisato dall’ufficio stampa della Corte di Cassazione (cliccare qui), “nello stesso 17 febbraio 2007 (il giorno prima della pubblicazione degli articoli incriminati sul quotidiano “Libero”)”, l’Agenzia Ansa diffonde quattro dispacci che correggono la notizia iniziale: la ragazzina non è stata obbligata ad abortire, ma è stata lei stessa, assieme alla madre, a rivolgersi alla magistratura per ottenere il consenso all’intervento, poiché non voleva che il padre ne venisse a conoscenza. La rettifica viene trasmessa anche dal Tg3 regionale e dal Radiogiornale, “tant’è che il 18 febbraio 2007 tutti i principali quotidiani, tranne Libero, ricostruivano la vicenda nei suoi esatti termini”.

» La nota sul caso Sallusti, diramata dall’ufficio stampa della Corte di Cassazione il 26 settembre 2012.

Si tenga presente che anche nella più sperduta delle redazioni, i “lanci” Ansa vengono costantemente controllati e che è impossibile ignorare quattro dispacci sullo stesso argomento. Inoltre, qualunque giornalista professionista sa bene che una notizia riguardante i minorenni, ancor più se coinvolti in delicate vicende, va trattata col maggior scrupolo possibile, per non violare le apposite norme del codice penale, nonché – ad esempio – la Carta di Treviso (materia di studio per l’esame statale di abilitazione professionale).

18 febbraio 2007 – Sul quotidiano Libero, allora diretto da Sallusti, compaiono un articolo di cronaca (firmato da Andrea Monticone) ed un commento (firmato con lo pseudonimo Dreyfus) in cui si ignora la rettifica e si continua a parlare di una ragazzina di 13 anni costretta dal Tribunale ad abortire e poi finita in un reparto psichiatrico per le conseguenze dell’imposizione giudiziaria.
Come si legge nella nota dell’ufficio stampa della Cassazione, la notizia “era falsa”, poiché “la giovane non era stata affatto costretta ad abortire, risalendo ciò ad una sua autonoma decisione, e l’intervento del giudice si era reso necessario solo perché, presente il consenso della mamma, mancava il consenso del padre della ragazza, la quale non aveva buoni rapporti con il genitore e non aveva inteso comunicare a quest’ultimo la decisione presa”.

Possibile che su un fatto così grave, pubblicato con un titolo a 4 colonne (di grande evidenza), nessuno abbia pensato ad effettuare un minimo di verifica, anche soltanto esaminando quanto scritto dagli altri organi di stampa (la lettura della concorrenza al mattino è una delle prime incombenze di un giornalista)?
Non soltanto la notizia di cronaca viene riportata in una versione contraria alla realtà, ma la si correda con un testo firmato da un ignoto “Dreyfus”. Chi fosse il commentatore avrebbe dovuto essere ben noto al direttore Sallusti, perché soltanto un folle, un incosciente, o il redattore di un giornalino scolastico consentirebbe ad un anonimo di pubblicare un “corsivo”, cioè un editoriale, con tanto di morale e di auspici di morte per genitori, ginecologo e magistrato.

Dreyfus è Renato Farina, attuale deputato del Pdl ed ex giornalista, a cui il 2 ottobre 2006 l’Ordine dei giornalisti della Lombardia commina la sospensione per un anno dall’esercizio della professione, con l’accusa di aver pubblicato notizie false in cambio di denaro dal Sismi; sempre nell’ottobre 2006, la Procura ne chiede la radiazione dall’Albo dei giornalisti, radiazione che arriva il 29 marzo 2007, dopo che lo stesso Farina aveva ammesso di aver collaborato con i servizi segreti. In seguito, la radiazione viene annullata dalla Cassazione con la sentenza numero 14407/2011, depositata il 30 giugno 2011, per il semplice fatto che l’ex giornalista si era già dimesso dopo le accuse ed il suo nome era stato cancellato dall’Albo dei giornalisti. Cliccare qui per consultare la pagina di Wikipedia.

Dunque, l’allora direttore di Libero, Alessandro Sallusti, dette il “visto si stampi” ad un corsivo redatto da un giornalista che, all’epoca, risultava sospeso da 4 mesi e mezzo dall’esercizio della professione. In pratica, era stata concessa libertà assoluta di diffamare – come accertato successivamente dai giudici – ad un “collega” contraddistintosi per una condotta contraria all’etica professionale. Non solo: permettere l’uso di uno pseudonimo che celava la vera identità dell’articolista faceva inevitabilmente ricadere sul direttore della testata la responsabilità di ogni parola pubblicata.
Se non si trattò di calcolo, a Sallusti, più che l’aureola del martire, spetterebbe l’asinello d’oro per aver svolto al peggio il suo compito di direttore responsabile.

Per leggere il commento di Farina, etichettato come “infame” da un twitter di Enrico Mentana, cliccare qui, oppure qui.

Reato d’opinione

Per capire esattamente che cosa è il reato di opinione, basta leggere la pagina ad esso dedicata dal noto sito giuridico Altalex, con una nota di Deborah Cimellaro e di Giuseppe Buffone. Nella medesima pagina, che si invita a consultare attentamente (cliccare qui), viene riportata una tabella che mette a confronto le norme vigenti fino alla Legge n. 85 del 24 febbraio 2006 e le modifiche apportate da quest’ultima norma.
Cliccare qui per visualizzare la tabella, posta a fondo pagina.

Reato di diffamazione

Innanzitutto va sottolineato che la diffamazione è un reato contro la persona ed i suoi diritti fondamentali, previsto dall’articolo 595 del Codice Penale. Pertanto, l’ordinamento giuridico presta ad esso una particolare e giustificata attenzione.
Eccone il testo, tratto da Wikipedia (cliccare qui):

«Chiunque, fuori dei casi indicati nell’articolo precedente, comunicando con più persone, offende l’altrui reputazione, è punito con la reclusione fino a un anno o con la multa fino a euro 1032.
Se l’offesa consiste nell’attribuzione di un fatto determinato, la pena è della reclusione fino a due anni, ovvero della multa fino a euro 2065.
Se l’offesa è recata col mezzo della stampa o con qualsiasi altro mezzo di pubblicità, ovvero in atto pubblico, la pena è della reclusione da sei mesi a tre anni o della multa non inferiore ad euro 516.
Se l’offesa è recata a un Corpo politico, amministrativo o giudiziario, o ad una sua rappresentanza, o ad una Autorità costituita in collegio, le pene sono aumentate.
»

La diffamazione a mezzo stampa comporta una aggravante delle pene, poiché il mezzo attraverso cui si diffonde è molto più potente di una semplice diceria: un conto è diffamare una persona al bar ed un conto è offenderla attraverso un mezzo di comunicazione che raggiunge decine di migliaia di lettori. A differenza di quanto ritiene il dottorale Filippo Facci (cliccare qui), la diffamazione a mezzo stampa rappresenta – di per sé – una aggravante a causa della sua maggiore “virulenza” e non perché attribuisce quasi sempre un fatto determinato, circostanza, questa, che diventa penalmente più rilevante anche nella diffamazione semplice.

Quante volte si è parlato e dibattuto contro la stampa che genera mostri e distrugge vite? Occorre un genio per capire quanto essa possa essere devastante? E, allora, appare giusto depenalizzarla, limitare le sanzioni ad una pena pecuniaria?
Una multa di 5.000 euro per Sallusti (ritenuto responsabile del testo di Dreyfus) ed una di 4.000 euro per il cronista Monticone sembrano una pena adeguata per aver additato un magistrato come una sorta di assassino di feti?

Il reato di omesso controllo

Alla base della condanna di Alessandro Sallusti nella sua funzione di direttore responsabile del quotidiano Libero, si trova l’articolo 57 del Codice Penale, che definisce la fattispecie di comportamento omissivo sanzionato dal Codice.

Art. 57 – Reati commessi col mezzo della stampa periodica
«Salva la responsabilità dell’autore della pubblicazione e fuori dei casi di concorso, il direttore o il vice-direttore responsabile, il quale omette di esercitare sul contenuto del periodico da lui diretto il controllo necessario ad impedire che col mezzo dalla pubblicazione siano commessi reati, è punito, a titolo di colpa, se un reato è commesso, con la pena stabilita per tale reato, diminuita in misura non eccedente un terzo.»
Articolo così modificato dalla L. 4 marzo 1958, n. 127.

Per valutare meglio la considerazione dell’anonimato da parte dell’ordinamento giuridico, appare utile riportare anche il successivo articolo 57 bis del Codice Penale.

Art. 57 bis – Reati commessi col mezzo della stampa non periodica
«Nel caso di stampa non periodica, le disposizioni di cui al precedente articolo si applicano all’editore, se l’autore della pubblicazione è ignoto o non imputabile, ovvero allo stampatore, se l’editore non è indicato o non è imputabile.»
Articolo aggiunto dalla L. 4 marzo 1958, n. 127.

All’estero non è così. Falso

Noi siamo uguali alla Corea del Nord, simili alla fallita Unione Sovietica“, ha tuonato Vittorio Feltri sul sito de Il Giornale (cliccare qui), prendendosela “con i dementi che, dopo 60 e passa anni di finta democrazia, mantengono in vita, per accidia e menefreghismo, alcune pagine del codice fascista.
Sì, fascista. Non vanno linciati i giudici «esagerati», che agiscono comunque in base alle regole, ma chi quelle regole non ha mai avuto il coraggio, e la sensibilità civile, di modificare, adeguandole ai canoni della democrazia liberale“. Naturalmente, a parlare è l’identico Feltri che si fece riprendere dalle telecamere del programma tv “Ballarò” con il busto di Mussolini nell’ufficio.

Tra le mistificazioni e le sciocchezze pronunciate per favorire la santificazione di Sallusti, c’è quella – ricorrente – che all’estero non è come in Italia, che all’estero il giornalista condannato per diffamazione non va in carcere.
E’ falso.
Ecco un articolo di Michael Braun, corrispondente del quotidiano berlinese “Die Tageszeitung” e della radio pubblica tedesca, in cui si legge quanto segue “Uno sguardo al codice penale tedesco ci dice subito che la diffamazione è reato punibile con due anni di carcere, e se avviene a mezzo stampa la pena sale addirittura fino a cinque anni. Insomma: chi, utilizzando le pagine di un giornale, denigra qualcuno ricorrendo ad affermazioni palesemente false rischia la galera anche in Germania.” (cliccare qui).

Conclusione

Per concludere, si possono riportare le parole scritte da Michele Serra.
Ovviamente la galera, per chi insulta o diffama a mezzo stampa, è una pena sproporzionata, e sinistramente intimidatoria nei confronti di chi scrive sui giornali. Ma questo non alleggerisce di un grammo le responsabilità morali e sociali di chiunque usa pubblicamente le parole; anzi le aggrava, perché l’esercizio della libertà di opinione circonfonde i giornalisti di un’aura di intoccabilità (di tipo castale, visto che va di moda dirlo) della quale è vile approfittare. L’articolo scritto sotto pseudonimo sul Giornale (in realtà, si trattava di Libero, un errore che ha fatto scattare subito la querela da parte de Il Giornale, cliccare qui n.d.r.) nel 2007 (e imputato al direttore responsabile Sallusti) conteneva opinioni violente ma soprattutto divulgava notizie false (rimando, per ragioni di spazio, all’esauriente analisi che ne fa Alessandro Robecchi sul suo blog). Diffama più il suo autore che le sue vittime.

Come al solito, in questo Paese di zelanti belanti, una battaglia per l’impunità viene contrabbandata per una battaglia di libertà, un dovere di credibilità viene stravolto in una patente di infallibilità.
Si può perfino intravvedere un filo che si dipana dal misterioso Dreyfus alla nipote di Mubarak, che unisce il servizio televisivo con cui si tentava di ridicolizzare il giudice Mesiano (colui che condannò la Mondadori ad un risarcimento di 750 milioni di euro a favore della Cir di Carlo De Benedetti) all’attacco infondato contro un magistrato indicato come abortista.
Che brutta pagina per il giornalismo italiano, per la vera democrazia che si fonda sullo stato di diritto (tutti dovrebbero essere uguali di fronte alla legge e tutti devono rispettarla), per i politici di Destra e di Sinistra che trovano nuovi sodali nei meccanismi del potere e li trovano proprio fra coloro che, all’estero, costituiscono uno dei baluardi più solidi contro i soprusi!

No, migliaia di giornalisti non sono, né vogliono essere, dei Sallusti. E, quando si legge un titolo come “In Italia più che gli euro mancano le palle” (cliccare qui), sovrastante un articolo del direttore con le stimmate, sono in tanti a voler rispondere: «Parli per sé e per tutti coloro che mangiano con lei alla stessa tavola».

Aggiornamento del 23 ottobre 2012

» Le motivazioni della sentenza di 1° grado del 26.1.2009 tratte dal sito Diritto Penale Contemporaneo.

» Il testo della sentenza emessa dalla Corte di Cassazione il 26.9.2012 verso Sallusti e Monticone.

La Corte di Cassazione ha depositato le motivazioni della sentenza n. 41249/2012, con cui Sallusti è stato condannato a 14 mesi di reclusione. Mentre il direttore de “Il Giornale” continua a rifiutare di chiedere forme alternative al carcere (come l’affidamento ai servizi sociali) e si presenta come un agnello sacrificale sull’altare della libertà di espressione, le 26 pagine con le ragioni alla base del giudizio emesso il 26 settembre scorso fanno riflettere, sia per la minuziosa analisi, sia per la severità delle argomentazioni.

Sallusti è descritto come un individuo dalla «spiccata capacità a delinquere», dimostrata «dai precedenti penali» e dalla «gravità» della «campagna intimidatoria» e «diffamatoria» condotta nei confronti del giudice Giuseppe Cocilovo, quando nel 2007 era alla guida del quotidiano “Libero”.

«Forma, sostanza, modalità, tecnica di informazione impiegati ed esibiti dal quotidiano, in persona del direttore Sallusti, dimostrano l’assenza di un leale confronto di idee e di una lecita critica» alla legge sulla interruzione di gravidanza, mentre i due articoli che hanno condotto alla condanna per diffamazione «dimostrano la presenza (…) di una illecita strategia di intimidatrice intolleranza, di discredito sociale, di sanzione morale diretta contro un magistrato», al quale è stato attribuito «un inesistente ruolo di protagonista nella procedura dell’aborto, rappresentata come cerimonia sacrificale di una vita umana, in nome della legge». Sul giornale di Sallusti, Cocilovo è stato descritto come un «crudele e disumano giustiziere, meritevole di essere posto nella gogna mediatica con la qualifica di assassino».

La Cassazione ha poi sottolineato che, alla base di questa campagna di stampa, c’era soltanto una notizia falsa e diffamatoria e che è infondato il richiamo alla libertà di stampa e di opinione: «se non c’è verità, ma calcolata e calibrata sua alterazione, finalizzata a disinformare e a creare inesistenti responsabilità e a infliggere fantasiose condanne agli avversari, il richiamo a nobili e tangibili principi di libertà è intrinsecamente offensivo per la collettività e storicamente derisorio, beffardo per coloro che, in difesa della libertà di opinione, hanno sacrificato la propria vita».

Per quanto riguarda il caso specifico, il documento giudiziario rivela che «le risultanze testimoniali e la documentazione acquisita dimostrano, in maniera conforme e coerente l’iniziale, autonoma, immutata decisione della minorenne, consapevole della difficile situazione personale e familiare, di abortire. L’intervento del giudice Cocilovo è stato reso necessario dalla correlata decisione della giovane donna di non informare il padre e di non consentirgli di esprimere il proprio assenso».

La Cassazione pone poi l’accento su uno dei principali rimproveri mossi a Sallusti: le mancate scuse al giudice diffamato. Il fatto di non aver mai smentito la notizia falsa data dal suo giornale, additando il magistrato come un “abortista”, ha rafforzato il «dolo», scrivono i giudici. Secondo la Cassazione, «Il direttore, nell’esercizio del suo diritto di guidare la redazione, in tutta autonomia, non solo ha manifestato assoluta indifferenza rispetto al dovere professionale di sanare la violazione della libertà, ma ha dato spazio, nel quotidiano (…) ad un prosieguo della campagna di offuscamento dell’immagine dei soggetti, a vario titolo, intervenuti nella vicenda, attraverso la riproposizione, da parte di un noto avvocato, dell’assenza di consenso della minorenne».

Infine, gli atti rilevano che esiste anche un danno morale da liquidare perché «è di tutta evidenza la ferita di lunga durata dell’identità professionale, della dignità dell’uomo, del credito sociale che il giudice si era conquistato con anni di attività lavorativa, causata dalla deformante e funesta immagine di apportatore di violenza morale, di morte e di follia».

Rispondendo a chi gli chiedeva un commento sul duro giudizio espresso dalla Corte, Alessandro Sallusti ha sibilato: «Non si può giocare con la vita delle persone. Il presidente della Cassazione dovrà risponderne anche a mio figlio», forse dimenticando che in precedenza due suoi redattori avevano “giocato” con la vita di una ragazzina, dei suoi genitori e di un giudice colpevole solo di aver fatto il suo dovere.

Aggiornamento del 12 dicembre 2012

L’Ordine dei giornalisti della Lombardia ha pubblicato una nota con la quale si rende noto che Alessandro Sallusti è stato sospeso dall’esercizio della professione per essere evaso dagli arresti domiciliari a cui era stato condannato. Nella stessa nota, l’Ordine comunica l’apertura di un procedimento disciplinare d’ufficio in relazione alla condanna per diffamazione passata in giudicato (cioè confermata dalla Corte di Cassazione). Sotto al seguente link, il testo dell’avviso pubblicato sul sito del medesimo Ordine lombardo.

» La comunicazione ufficiale dell’avvio del procedimento disciplinare da parte dell’Ordine dei giornalisti.

Mercoledì, 12 dicembre 2012

L’Ordine dei giornalisti della Lombardia nella riunione del 6 dicembre ha preso atto e comunicato al collega Alessandro Sallusti l’avvenuta sospensione degli effetti di diritto della sua iscrizione all’albo dei giornalisti, come previsto dall’art.39 secondo comma della legge professionale n. 69 del 1963. La norma recita infatti: “Ove sia emesso ordine o mandato di cattura, gli effetti dell’iscrizione sono sospesi di diritto fino alla revoca del mandato o dell’ordine”. Sallusti è stato destinatario nei giorni scorsi di un ordine di custodia cautelare in seguito alla sua evasione.

Nella stessa seduta l’Ordine ha aperto procedimento disciplinare d’ufficio in relazione ai fatti accertati in via definitiva dall’Autorità Giudiziaria che costituiscono violazione delle norme deontologiche e dei valori fondamentali che presiedono la professione. Al giornalista sono stati contestati la violazione dell’art. 48 anche sotto il profilo dell’omesso controllo della veridicità delle notizie pubblicate e la violazione dell’art. 2 (legge professionale 3/2/1963 n. 69) per il mancato controllo rispetto alla verità sostanziale dei fatti e perché tali fatti costituiscono reato, come deciso con sentenza definitiva dall’Autorità Giudiziaria.

Il nuovo testo di legge sui reati d’opinione

NUOVO TESTO

TESTO FINO AL 24/02/2006

«Art. 241. – (Attentati contro l’integrità, l’indipendenza e l’unità dello Stato).

Salvo che il fatto costituisca più grave reato, chiunque compie atti violenti diretti e idonei a sottoporre il territorio dello Stato o una parte di esso alla sovranità di uno Stato straniero, ovvero a menomare l’indipendenza o l’unità dello Stato, è punito con la reclusione non inferiore a dodici anni.

La pena è aggravata se il fatto è commesso con violazione dei doveri inerenti l’esercizio di funzioni pubbliche».

241. Attentati contro l’integrità, l’indipendenza o l’unità dello Stato.

Chiunque commette un fatto diretto a sottoporre il territorio dello Stato [ o una parte di esso alla sovranità di uno Stato straniero, ovvero a menomare l’indipendenza dello Stato, è punito con la morte. ergastolo

Alla stessa pena soggiace chiunque commette un fatto diretto a disciogliere l’unità dello Stato, o a distaccare dalla madre Patria una colonia o un altro territorio soggetto, anche temporaneamente, alla sua sovranità.

«Art. 270. – (Associazioni sovversive).

Chiunque nel territorio dello Stato promuove, costituisce, organizza o dirige associazioni dirette e idonee a sovvertire violentemente gli ordinamenti economici o sociali costituiti nello Stato ovvero a sopprimere violentemente l’ordinamento politico e giuridico dello Stato, è punito con la reclusione da cinque a dieci anni.

Chiunque partecipa alle associazioni di cui al primo comma è punito con la reclusione da uno a tre anni.

Le pene sono aumentate per coloro che ricostituiscono, anche sotto falso nome o forma simulata, le associazioni di cui al primo comma, delle quali sia stato ordinato lo scioglimento».

270. Associazioni sovversive.

Chiunque nel territorio dello Stato ] promuove, costituisce, organizza o dirige assciazioni dirette a stabilire violentemente la dittatura di una classe sociale sulle altre, ovvero a sopprimere violentemente una classe sociale o, comunque, a sovvertire violentemente gli ordinamenti economici o sociali costituiti nello Stato , è punito con la reclusione da cinque a dodici anni.

Alla stessa pena soggiace chiunque nel territorio dello Stato promuove, costituisce, organizza o dirige associazioni aventi per fine la soppressione violenta di ogni ordinamento politico e giuridico della società (3).

Chiunque partecipa a tali associazioni è punito con la reclusione da uno a tre anni [c.p. 64].

Le pene sono aumentate per coloro che ricostituiscono, anche sotto falso nome o forma simulata, le associazioni predette, delle quali sia stato ordinato lo scioglimento

«Art. 283. – Attentato contro la Costituzione dello Stato

Chiunque, con atti violenti, commette un fatto diretto e idoneo a mutare la Costituzione dello Stato o la forma di governo, è punito con la reclusione non inferiore a cinque anni».

283. Attentato contro la costituzione dello Stato.

Chiunque commette un fatto diretto a mutare la costituzione dello Stato o la forma del Governo, con mezzi non consentiti dall’ordinamento costituzionale dello Stato, è punito con la reclusione non inferiore a dodici anni

«Art. 289. – (Attentato contro organi costituzionali e contro le assemblee regionali).

È punito con la reclusione da uno a cinque anni, qualora non si tratti di un più grave delitto, chiunque commette atti violenti diretti ad impedire, in tutto o in parte, anche temporaneamente:

1) al Presidente della Repubblica o al Governo l’esercizio delle attribuzioni o delle prerogative conferite dalla legge;

2) alle assemblee legislative o ad una di queste, o alla Corte costituzionale o alle assemblee regionali l’esercizio delle loro funzioni».

289. Attentato contro organi costituzionali e contro le assemblee regionali.

È punito con la reclusione non inferiore a dieci annI, qualora non si tratti di un più grave delitto, chiunque commette un fatto diretto a impedire, in tutto o in parte, anche temporaneamente:

1. al presidente della Repubblica o al Governo l’esercizio delle attribuzioni o delle prerogative conferite dalla legge;

2. alle assemblee legislative o ad una di queste, o alla Corte costituzionale o alle assemblee regionali, l’esercizio delle loro funzioni.

La pena è della reclusione da uno a cinque anni se il fatto è diretto soltanto a turbare l’esercizio delle attribuzioni, prerogative o funzioni suddette

290. Vilipendio della Repubblica, delle istituzioni costituzionali e delle forze armate.

Chiunque pubblicamente vilipende la Repubblica, le Assemblee legislative o una di queste , ovvero il Governo, o la Corte costituzionale o l’ordine giudiziario , è punito «con la multa da euro 1.000 a euro 5.000».

La stessa pena si applica a chi pubblicamente vilipende le forze armate dello Stato o quelle della liberazione

290. Vilipendio della Repubblica, delle istituzioni costituzionali e delle forze armate.

Chiunque pubblicamente vilipende la Repubblica, le Assemblee legislative o una di queste , ovvero il Governo, o la Corte costituzionale o l’ordine giudiziario , è punito con la reclusione da sei mesi a tre anni.

La stessa pena si applica a chi pubblicamente vilipende le forze armate dello Stato o quelle della liberazione

291. Vilipendio alla nazione italiana.

Chiunque pubblicamente vilipende la nazione italiana è punito con la con la multa da euro 1.000 a euro 5.000

291. Vilipendio alla nazione italiana.

Chiunque pubblicamente vilipende la nazione italiana è punito con la reclusione da uno a tre anni

«Art. 292. – (Vilipendio o danneggiamento alla bandiera o ad altro emblema dello Stato).

Chiunque vilipende con espressioni ingiuriose la bandiera nazionale o un altro emblema dello Stato è punito con la multa da euro 1.000 a euro 5.000. La pena è aumentata da euro 5.000 a euro 10.000 nel caso in cui il medesimo fatto sia commesso in occasione di una pubblica ricorrenza o di una cerimonia ufficiale.

Chiunque pubblicamente e intenzionalmente distrugge, disperde, deteriora, rende inservibile o imbratta la bandiera nazionale o un altro emblema dello Stato è punito con la reclusione fino a due anni.

Agli effetti della legge penale per bandiera nazionale si intende la bandiera ufficiale dello Stato e ogni altra bandiera portante i colori nazionali».

292. Vilipendio alla bandiera o ad altro emblema dello Stato.

Chiunque vilipende la bandiera nazionale o di un altro emblema dello Stato è punito con la reclusione da uno a tre anni.

Agli effetti della legge penale, per bandiera nazionale s’intende la bandiera ufficiale dello Stato e ogni altra bandiera portante i colori nazionali.

Le disposizioni di questo articolo si applicano anche a chi vilipende i colori nazionali raffigurati su cosa diversa da una bandiera

342. Oltraggio a un corpo politico, amministrativo o giudiziario.

Chiunque offende l’onore o il prestigio di un corpo politico, amministrativo o giudiziario, o di una rappresentanza di esso, o di una pubblica autorità costituita in collegio, al cospetto del corpo, della rappresentanza o del collegio, è punito «con la multa da euro 1.000 a euro 5.000».

La stessa pena si applica a chi commette il fatto mediante comunicazione telegrafica, o con scritto o disegno diretti al corpo, alla rappresentanza o al collegio, a causa delle sue funzioni.

La pena«è della multa da euro 2.000 a euro 6.000» se l’offesa consiste nell’attribuzione di un fatto determinato

.

Si applica la disposizione dell’ultimo capoverso dell’articolo precedente

342. Oltraggio a un corpo politico, amministrativo o giudiziario.

Chiunque offende l’onore o il prestigio di un corpo politico, amministrativo o giudiziario, o di una rappresentanza di esso, o di una pubblica autorità costituita in collegio, al cospetto del corpo, della rappresentanza o del collegio, è punito con la reclusione fino a tre anni.

La stessa pena si applica a chi commette il fatto mediante comunicazione telegrafica, o con scritto o disegno diretti al corpo, alla rappresentanza o al collegio, a causa delle sue funzioni.

La pena è della reclusione da uno a quattro anni se l’offesa consiste nell’attribuzione di un fatto determinato

.

Si applica la disposizione dell’ultimo capoverso dell’articolo precedente

«Art. 299. – (Offesa alla bandiera o ad altro emblema di uno Stato estero).

Chiunque nel territorio dello Stato vilipende, con espressioni ingiuriose, in luogo pubblico o aperto o esposto al pubblico, la bandiera ufficiale o un altro emblema di uno Stato estero, usati in conformità del diritto interno dello Stato italiano, è punito con l’ammenda da euro 100 a euro 1.000».

299. Offesa alla bandiera o ad altro emblema di uno Stato estero.

Chiunque nel territorio dello Stato vilipende, in un luogo pubblico o aperto o esposto al pubblico, la bandiera ufficiale o un altro emblema di uno Stato estero , usati in conformità del diritto interno dello Stato italiano, è punito con la reclusione da sei mesi a tre anni

TITOLO IV

Dei delitti contro il sentimento religioso e contro la pietà dei defunti

Capo I

«DEI DELITTI CONTRO LE CONFESSIONI RELIGIOSE

TITOLO IV

Dei delitti contro il sentimento religioso e contro la pietà dei defunti

Capo I

Dei delitti contro la religione dello Stato e i culti ammessi

«Art. 403. – (Offese a una confessione religiosa mediante vilipendio di persone).

Chiunque pubblicamente offende una confessione religiosa, mediante vilipendio di chi la professa, è punito con la multa da euro 1.000 a euro 5.000.

Si applica la multa da euro 2.000 a euro 6.000 a chi offende una confessione religiosa, mediante vilipendio di un ministro del culto».

403. Offese alla religione dello Stato mediante vilipendio di persone.

Chiunque pubblicamente offende la religione dello Stato mediante vilipendio di chi la professa, è punito con la reclusione fino a due anni.

Si applica la reclusione da uno a tre anni a chi offende la religione dello Stato, mediante vilipendio di un ministro del culto cattolico

Art. 404. – (Offese a una confessione religiosa mediante vilipendio o danneggiamento di cose).

Chiunque, in luogo destinato al culto, o in luogo pubblico o aperto al pubblico, offendendo una confessione religiosa, vilipende con espressioni ingiuriose cose che formino oggetto di culto, o siano consacrate al culto, o siano destinate necessariamente all’esercizio del culto, ovvero commette il fatto in occasione di funzioni religiose, compiute in luogo privato da un ministro del culto, è punito con la multa da euro 1.000 a euro 5.000.

Chiunque pubblicamente e intenzionalmente distrugge, disperde, deteriora, rende inservibili o imbratta cose che formino oggetto di culto o siano consacrate al culto o siano destinate necessariamente all’esercizio del culto è punito con la reclusione fino a due anni».

404. Offese alla religione dello Stato mediante vilipendio di cose.

Chiunque in luogo destinato al culto, o in un luogo pubblico o aperto al pubblico, offende la religione dello Stato , mediante vilipendio di cose che formino oggetto di culto, o siano consacrate al culto, o siano destinate necessariamente all’esercizio del culto, è punito con la reclusione da uno a tre anni.

La stessa pena si applica a chi commette il fatto in occasione di funzioni religiose, compiute in un luogo privato da un ministro del culto cattolico

405. Turbamento di funzioni religiose del culto di una confessione religiosa

Chiunque impedisce o turba l’esercizio di funzioni, cerimonie o pratiche religiose del culto di una confessione religiosa, le quali si compiano con l’assistenza di un ministro del culto medesimo o in un luogo destinato al culto, o in un luogo pubblico o aperto al pubblico, è punito con la reclusione fino a due anni.

Se concorrono fatti di violenza alle persone o di minaccia, si applica la reclusione da uno a tre anni

405. Turbamento di funzioni religiose del culto cattolico.

Chiunque impedisce o turba l’esercizio di funzioni, cerimonie o pratiche religiose del culto cattolico, le quali si compiano con l’assistenza di un ministro del culto medesimo o in un luogo destinato al culto, o in un luogo pubblico o aperto al pubblico, è punito con la reclusione fino a due anni.

Se concorrono fatti di violenza alle persone o di minaccia, si applica la reclusione da uno a tre anni

ABROGATO

406. Delitti contro i culti ammessi nello Stato.

Chiunque commette uno dei fatti preveduti dagli articoli 403, 404 e 405 contro un culto ammesso nello Stato è punito ai termini dei predetti articoli, ma la pena è diminuita

ABROGATO

269. Attività antinazionale del cittadino all’estero.

Il cittadino, che, fuori del territorio dello Stato, diffonde o comunica voci o notizie false, esagerate o tendenziose sulle condizioni interne dello Stato per modo da menomare il credito o il prestigio dello Stato all’estero, o svolge comunque un’attività tale da recare nocumento agli interessi nazionali, è punito con la reclusione non inferiore a cinque anni

ABROGATO

272. Propaganda ed apologia sovversiva o antinazionale.

Chiunque nel territorio dello Stato fa propaganda per l’instaurazione violenta della dittatura di una classe sociale sulle altre, o per la soppressione violenta di una classe sociale o, comunque, per il sovvertimento violento degli ordinamenti economici o sociali costituiti nello Stato, ovvero fa propaganda per la distruzione di ogni ordinamento politico e giuridico della società, è punito con la reclusione da uno a cinque anni.

Se la propaganda è fatta per distruggere o deprimere il sentimento nazionale, la pena è della reclusione da sei mesi a due anni .

Alle stesse pene soggiace chi fa apologia dei fatti preveduti dalle disposizioni precedenti

ABROGATO

279. Lesa prerogativa della irresponsabilità del presidente della Repubblica.

Chiunque pubblicamente , fa risalire al presidente della Repubblica il biasimo o la responsabilità degli atti del Governo, è punito con la reclusione fino ad un anno e con la multa da lire duecentomila a lire due milioni

ABROGATO

292-bis. Circostanza aggravante.

La pena prevista nei casi indicati dall’articolo 278 (offesa all’onore o al prestigio del presidente della Repubblica), dall’art. 290, comma secondo (vilipendio delle forze armate), e dall’art. 292 (vilipendio della bandiera o di altro emblema dello Stato), è aumentata, se il fatto è commesso dal militare in congedo.

Si considera militare in congedo chi, non essendo in servizio alle armi, non ha cessato di appartenere alle forze armate dello Stato, ai sensi degli articoli 8 e 9 del codice penale militare di pace

ABROGATO

293. Circostanza aggravante.

Nei casi indicati dai due articoli precedenti , la pena è aumentata se il fatto è commesso dal cittadino in territorio estero

Legge 13 ottobre 1975, n. 654

Articolo 3 comma 1

Salvo che il fatto costituisca più grave reato, anche ai fini dell’attuazione della disposizione dell’articolo 4 della convenzione, è punito:

«a) con la reclusione fino ad un anno e sei mesi o con la multa fino a 6.000 euro chi propaganda idee fondate sulla superiorità o sull’odio razziale o etnico, ovvero istiga a commettere o commette atti di discriminazione per motivi razziali, etnici, nazionali o religiosi;»

b) con la reclusione da sei mesi a quattro anni chi, in qualsiasi modo, ISTIGA a commettere o commette violenza o atti di provocazione alla violenza per motivi razziali, etnici, nazionali o religiosi;

Legge 13 ottobre 1975, n. 654

Articolo 3 comma 1

Salvo che il fatto costituisca più grave reato, anche ai fini dell’attuazione della disposizione dell’articolo 4 della convenzione, è punito:

a) con la reclusione sino a tre anni chi diffonde in qualsiasi modo idee fondate sulla superiorità o sull’odio razziale o etnico, ovvero incita a commettere o commette atti di discriminazione per motivi razziali, etnici, nazionali o religiosi;

b) con la reclusione da sei mesi a quattro anni chi, in qualsiasi modo, incita a commettere o commette violenza o atti di provocazione alla violenza per motivi razziali, etnici, nazionali o religiosi;

2 C.P. – Successione di leggi penali.

Nessuno può essere punito per un fatto che, secondo la legge del tempo in cui fu commesso, non costituiva reato.

Nessuno può essere punito per un fatto che, secondo una legge posteriore, non costituisce reato; e, se vi è stata condanna, ne cessano l’esecuzione e gli effetti penali.

«Se vi è stata condanna a pena detentiva e la legge posteriore prevede esclusivamente la pena pecuniaria, la pena detentiva inflitta si converte immediatamente nella corrispondente pena pecuniaria, ai sensi dell’articolo 135».

Se la legge del tempo in cui fu commesso il reato e le posteriori sono diverse, si applica quella le cui disposizioni sono più favorevoli al reo, salvo che sia stata pronunciata sentenza irrevocabile.

Se si tratta di leggi eccezionali o temporanee, non si applicano le disposizioni dei capoversi precedenti.

Le disposizioni di questo articolo si applicano altresì nei casi di decadenza e di mancata ratifica di un decreto-legge e nel caso di un decreto-legge convertito in legge con emendamenti

2 C.P. – Successione di leggi penali.

Nessuno può essere punito per un fatto che, secondo la legge del tempo in cui fu commesso, non costituiva reato.

Nessuno può essere punito per un fatto che, secondo una legge posteriore, non costituisce reato; e, se vi è stata condanna, ne cessano l’esecuzione e gli effetti penali.

Se la legge del tempo in cui fu commesso il reato e le posteriori sono diverse, si applica quella le cui disposizioni sono più favorevoli al reo, salvo che sia stata pronunciata sentenza irrevocabile.

Se si tratta di leggi eccezionali o temporanee, non si applicano le disposizioni dei capoversi precedenti.

Le disposizioni di questo articolo si applicano altresì nei casi di decadenza e di mancata ratifica di un decreto-legge e nel caso di un decreto-legge convertito in legge con emendamenti

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