Pg processo Dell’Utri: 6

28 Apr 2012 | Di | Categoria: Le pagelline

Il Sostituto Procuratore Mauro Iacoviello“Notizie di buona e di cattiva giustizia”, gongolò Giuliano Ferrara dalla poltrona della rubrica tv “Radio Londra”, annunciando il 9 marzo scorso che la Corte di Cassazione aveva annullato la sentenza emessa il 29 giugno del 2010 dalla Corte d’Appello di Palermo (cliccare qui per leggerla), con cui il senatore Marcello Dell’Utri era stato condannato a 7 anni di reclusione per concorso esterno in associazione di stampo mafioso. Il titano a guardia dei potenti pose l’accento televisivo sul fatto che il Sostituto Procuratore Generale presso la Suprema Corte aveva richiamato il principio della certezza “al di là di ogni ragionevole dubbio” alla base di ogni giudizio di colpa.

Già nei giorni precedenti, alcune frasi della requisitoria (cliccare qui per leggerla) dello stesso Sostituto Procuratore, Francesco Mauro Iacoviello, avevano scatenato polemiche. Fra tutte, in particolare colpì quella che bollava il concorso esterno in associazione mafiosa come un reato a cui non crede più nessuno, un reato che aveva condotto in carcere importanti esponenti di Cosa Nostra e che era stato un cardine del maxi-processo di Palermo, di cui fu artefice Giovanni Falcone (il prossimo 23 maggio sarà il ventennale della sua morte nella strage di Capaci).

Fra rabbia ed applausi, il rumore fu tanto. Dell’Utri esultò e qualcun altro tirò un sospiro di sollievo. Ci fu anche chi ritenne scritto in anticipo il verdetto della Corte di Cassazione. Iacoviello fu crocifisso e beatificato, secondo gli umori di Guelfi e Ghibellini.

Le chiacchiere di “Radio Londra” – pagate 600 euro al minuto dalla Rai pubblica – furono solo una delle tante voci emerse dal chiasso post-sentenza (cliccare qui per leggerla: prima parte, seconda parte, terza parte, quarta parte).

“Col senno di poi e con la memoria di pochi, tutto si aggiusta. Anche una affermazione che suscita sospetti” avranno pensato in tanti fregandosi le mani, mentre altri (come Ingroia e Caselli) non hanno resistito alla tentazione di manifestare il proprio sconcerto.

La pubblicazione delle motivazioni, con cui la Corte di Cassazione decise di far ripetere il processo in Corte d’Appello, ha però sedato gli animi, facendo cadere una doccia gelata su alcuni (povero Dell’Utri) e stiepidendo gli animi di altri.

In sintesi: i magistrati di ultima istanza accolsero la richiesta di rinvio fatta dal Sostituto Procuratore Generale, ma ignorarono le motivazioni addotte dal medesimo pubblico ministero.

Come si può leggere negli atti, la requisitoria di Iacoviello fu articolata in gran parte sulla contestazione della validità della figura giuridica del reato di concorso esterno in associazione mafiosa.

Queste, le asserzioni che suscitarono maggiore clamore.

Come si vede, il concorso esterno ormai pone problematiche diverse da quelle dell’associazione mafiosa.
Nato dall’art. 416 bis cp, ormai è un reato autonomo.
Un reato autonomo creato dalla giurisprudenza.
Che prima lo ha creato, usato e dilatato. E ora lo sta progressivamente restringendo fino a casi marginali.
In cassazione sono ormai rare le condanne definitive per concorso esterno.
Dall’entusiasmo allo scetticismo.
Ormai non ci si crede più.

Con sottili e sinuose argomentazioni giuridiche, Francesco Mauro Iacoviello demolì sul piano del Diritto il verdetto dei giudici di Palermo e smontò il ruolo che era stato attribuito a Dell’Utri, identificato in Appello come il mediatore tra la Mafia e Silvio Berlusconi.

Ecco altri brani significativi di quell’arringa che sembrò quasi una difesa dell’imputato.

Se la Mannino (metodicamente ignorata dalla sentenza) ci dice che il contributo del concorrente esterno deve essere concreto, effettivo e rilevante, il quesito giuridico è: “come è possibile un contributo concreto effettivo e rilevante ad una estorsione, che però sia qualcosa di meno del concorso in estorsione ?”.
La sentenza impugnata non si è posto l’interrogativo.
Ma trattandosi di una questione di diritto sostanziale, la Corte deve porselo.

La teoria del mediatore?
L’imputato viene qualificato mediatore dalla sentenza.
Le metafore sono pericolose, bisogna sceglierle con cura.
Occorrerebbe prima descrivere cosa ha fatto l’imputato e poi qualificare la sua condotta come mediazione.
Ma perché mediatore e non – per rimanere nella metafora civilistica – mandatario con procura per conto della vittima ?
Questa idea della mediazione è paradossale.
Si è mai visto che in un’ estorsione (per di più mafiosa) c’è una mediazione tra autore e vittima ?
Che estorsione è ?
La mediazione implica parti contrapposte in posizione di autonomia negoziale che contrattano.
Sarebbe una singolarità strepitosa che la mafia abbia bisogno di un mediatore.
Un mediatore che strappi un pizzo maggiore ?
Se un mediatore c’è, è per conto della vittima.
Criminologicamente è la vittima di un’estorsione o di un sequestro di persona che cerca una mediazione per spuntare un prezzo migliore e condizioni di pagamento -rateali- migliori.
Anche qui c’è travisamento del fatto e mancanza di motivazione.

La teoria del prestigio interno di Bontate per effetto del canale Dell’Utri: cioè il rafforzamento interno?
Anche qui la Mannino ostruisce ogni percorso.
Ma c’è di più.
Cioè non c’è nulla.
Manca la prova che ci fosse questa circolazione interna della notizia dell’esistenza di un canale di collegamento costituito dall’imputato.
Eppoi, qualcuno potrebbe ironizzare: si è tanto rafforzato Bontate che dopo qualche anno è stato ammazzato.
Si è tanto rafforzato come prestigio interno Riina che il capo dei capi fino all’85 neppure sapeva che l’imprenditore era estorto.

Questo, il passaggio caro a Giuliano Ferrara.

Ma in questo processo esiste il ragionevole dubbio?
Abbiamo un’accusa non descritta.
Un dolo diviso.
Asserzioni non argomentate.
Precedenti che non ci sono.
Sentenza delle Sezioni Unite che c’è ma viene ignorata.
Ma soprattutto nelle centinaia di pagine della sentenza c’è un’espressione che non compare mai.
E che forse ha una qualche importanza: ragionevole dubbio.

Altro brano della requisitoria.

Ma c’è di più: l’imputato per vari anni (dal ‘79 all’82-83) ha smesso di lavorare per la vittima ed è andato a lavorare altrove.
Dobbiamo ritenere che anche in quegli anni è continuata la condotta di concorrente esterno ?
Se è così, allora davvero l’imputato non ha scampo.
Ma non ha scampo neppure il diritto.

Queste, le richieste finali del pubblico ministero Iacoviello.

Dunque, la soluzione conforme ai poteri cognitivi e decisori della nostra Cassazione sarebbe quella dell’annullamento con rinvio.
Il giudice di rinvio avrebbe il compito di:
a) parametrare l’imputazione (precisando la condotta, il contributo materiale e il dolo);
b) chiarire se la condotta del concorrente esterno debba presentare o meno i requisiti del concorso in estorsione;
c) stabilire se si sia in presenza di un reato unico o di un reato continuato (anche ai fini di una eventuale, parziale prescrizione);
d) adeguare la motivazione all’imputazione così determinata, seguendo un ordine logico, senza sovrapposizione di piani tra condotta, effetto causale e dolo e –soprattutto – senza slittamenti semantici, espressioni vaghe volte a coprire un vuoto argomentativo.
L’annullamento con rinvio per vizio di motivazione non vuol dire che l’imputato è innocente.
Vuol dire che la motivazione è viziata, non che la decisione sia sbagliata.
E’ un annullamento fatto non a favore dell’imputato.
Ma a favore del diritto.

La pubblicazione delle motivazioni della sentenza della Corte di Cassazione permette di fare alcune considerazioni, anche a chi non è un professionista del Diritto e tenta di capire prescindendo dai tecnicismi.

1) Come già scritto da Marco Travaglio, non è vero che la Corte di Appello ha ignorato la sentenza Mannino, un precedente fondamentale in giurisprudenza. La sentenza emanata a Palermo su Dell’Utri cita il caso Mannino per ben 7 volte. Quindi, il Sostituto Procuratore Iacoviello ha commesso un clamoroso errore di distrazione, oppure non ha letto con sufficiente diligenza gli atti trasmessi dalla Sicilia. Un alto magistrato non può permettersi certe sviste.

2) Le argomentazioni contenute nelle richieste di Iacoviello non sono state, sic et simpliciter, una difesa dell’imputato Dell’Utri perché si è trattato di disquisizioni di carattere giuridico con una loro fondatezza, incentrate sulla definizione del reato di concorso esterno in associazione di stampo mafioso. Quindi, Iacoviello non ha fatto il “sostituto difensore” ed il suo intervento potrebbe anche essere letto come un responsabile campanello d’allarme. Semmai, Iacoviello si è eccessivamente dilungato in una trattazione che non gli competeva (la sua funzione è quella della pubblica accusa). Era giusto rilevare i contorni indefiniti (a suo giudizio) del reato ascritto a Dell’Utri, ma è sembrato quasi che il magistrato volesse fare dottrina, invece di puntare soprattutto sulla realtà processuale.
E’ vero che ogni reato va delineato con esattezza dal codice penale, però è altrettanto vero che la legge nasce dalla vita quotidiana, dalla interazione fra individui, dalle condotte che creano un pericolo sociale. I comportamenti lesivi del bene individuale e collettivo vanno desunti dalla realtà e poi codificati; non scaturiscono da codici e pandette. Il punto di vista di chi sprofonda nelle questioni giuridiche risulta a volte viziato da un’inversione della logica che fa da binario al Diritto.
Come rilevato da più commentatori, il compito di Iacoviello non era quello di riscrivere un reato o di demolirlo, ma quello di far valere le ragioni della Procura di Palermo, magari evidenziandone le lacune, ma di certo non privandola della base giuridica per farle franare.

3) Le richieste di Iacoviello sono state accolte dai giudici della Cassazione. Iacoviello chiede: “l’imputato per vari anni (dal ’79 all’82-83) ha smesso di lavorare per la vittima (cioè per Berlusconi che temeva per l’incolumità sua e dei suoi familiari, n.d.r.) ed è andato a lavorare altrove (cioè per per Rapisarda, n.d.r.). Dobbiamo ritenere che anche in quegli anni è continuata la condotta di concorrente esterno?”. Il collegio giudicante ha ritenuto il quesito così importante da rispedire al mittente la sentenza di secondo grado, chiedendo alla Corte di Appello di colmare la lacuna temporale e di chiarire se il senatore Dell’Utri “fiancheggiò” Cosa nostra anche negli anni dal 1977 al 1982.

4) Dell’Utri non è stato assolto. Anzi, semmai, è stato riconosciuto colpevole anche in Cassazione, sebbene non per tutto l’arco di tempo considerato dai giudici di Palermo. La Suprema Corte ha considerato provato (ritenendo valide le testimoninanze dei pentiti, contestate dalla difesa dell’imputato) il ruolo di “mediatore” svolto da Dell’Utri nell’accordo protettivo per il quale Berlusconi pagò alla mafia “cospicue somme” allo scopo di garantire la sicurezza sua e dei familiari. Il lavoro svolto a Palermo risulta carente – sempre secondo la Cassazione – solo per un intervallo di 5 anni (dal 1977 al 1982), quando Dell’Utri non lavorò per Berlusconi.
Non solo: la Cassazione apre alla possibilità di allungare i termini della prescrizione, attualmente prevista per il 2014.

5) Iacoviello ha visto soddisfatte le sue richieste, ma del tutto ignorate le sue discettazioni sul reato di concorso esterno in associazione mafiosa, reato in base al quale la Cassazione ha spedito definitivamente in galera non pochi condannati. Proprio riconoscendo provata l’attività di mediazione svolta da Dell’Utri accusato di concorso esterno, la Cassazione ha ribadito la validità di tale previsione di reato.

Per concludere, può essere chiarificatore un brano dell’articolo pubblicato dal Corriere del Mezzogiorno (versione locale del Corriere della Sera) il 24 aprile scorso ed aggiornato il successivo 26, dopo la diffusione della pubblicazione integrale delle motivazioni della Cassazione (cliccare qui per leggere l’articolo).

Spiegano i supremi giudici – nella sentenza 15727 di 146 pagine – che in maniera «corretta» sono state valutate, dai giudici della Corte d’Appello di Palermo, le «convergenti dichiarazioni» di più collaboratori sul tema «dell’assunzione, per il tramite di Dell’Utri, di Mangano ad Arcore, come la risultante di convergenti interessi di Berlusconi e di Cosa Nostra». Provata anche la «non gratuità dell’accordo protettivo»: i giudici scrivono che in «posizione di vittima», l’ex premier Silvio Berlusconi, all’epoca «imprenditore» pagò «cospicue somme» in favore di Cosa Nostra in cambio «dell’accordo protettivo» contro il rischio di sequestri ai suoi danni e dei suoi familiari. Per quanto riguarda l’assunzione del mafioso stalliere Mangano alla villa di Arcore, ad avviso della Suprema Corte, il dato di fatto «indipendentemente dalle ricostruzioni dei cosiddetti pentiti, è stato congruamente delineato dai giudici di merito come indicativo, senza possibilità di valide alternative, di un accordo di natura protettiva e collaborativa raggiunto da Berlusconi con la mafia per il tramite di Dell’Utri che, di quella assunzione, è stato l’artefice grazie anche all’impegno specifico profuso da Cinà».

A volte, le parole allontanano dalla verità, mentre i fatti la avvicinano.

Il Sostituto Procuratore Generale presso la Corte di Cassazione non dovrebbe mai dimenticarlo.

GLI ATTI (FARE CLICK SUI LINK SOTTOSTANTI).

La sentenza emessa il il 29 giugno del 2010 dalla Corte di Appello di Palermo.

La requisitoria del Sostituto Procuratore Generale presso la Corte di Cassazione, Francesco Mauro Iacoviello.

La sentenza n. 15727 emessa dalla Corte di Cassazione il 9 marzo 2012:
prima parte;
seconda parte;
terza parte;
quarta parte.

L’intervento di Giuliano Ferrara nella sua rubrica “Radio Londra”, andato in onda su Rai1 il 9 marzo 2012.

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