Sanremo: papaveri, papere e la pornografia di Costanzo

21 Feb 2010 | Di | Categoria: In primo piano, In primo piano: note

Maurizio Costanzo al Festival di SanremoPer definizione, il termine “pornografia” attiene alla sfera sessuale. In questo caso, televisivamente, la si può definire come una rappresentazione cruda che offende il pudore, mirata al tornaconto ed a scopi materiali, come l’audience.
Questa edizione del Festival di Sanremo, che ha ottenuto record di ascolti, ne ha dispensata soprattutto durante la serata finale, quando sul palco del Teatro Ariston è apparso Maurizio Costanzo. Da buon giornalista di sinistra, attento ai bisogni della gente comune, ha portato in passerella tre operai della Fiat di Termini Imerese, la fabbrica che sarà chiusa entro un paio d’anni prefigurando il lastrico a migliaia di famiglie.
I tre inconsapevoli attori del porno-intermezzo sono stati Calogero Cuccia (43 anni, alla Fiat di Termini Imerese da 22 anni), Lucia La Placa (40 anni, lavoratrice dell’indotto, in mobilità dal dicembre 2008), Antonio Tarantino (43 anni, in azienda da 21, salito sul tetto della fabbrica). I tre operai hanno raccontato il loro dramma, le speranze, la paura di perdere il salario. Sono stati sinceri, pacati ed onesti. Costanzo dirigeva, perché un bravo giornalista di sinistra deve portare le sofferenze del popolo ovunque, anche in un teatro dove si cantano canzoni che regalano qualche ora di serenità a chi combatte con la vita tutti i giorni.
A che pro? Servivano i riflettori ad un problema di cui si dibatte da mesi? Poteva un siparietto smuovere coscienze e sollecitare soluzioni? No. Quella a cui il pubblico ha assistito è stata una rappresentazione di pornografia sociale, di oscenità nell’esibire sentimenti ed angosce.
La televisione offre rappresentazioni sintetiche della realtà e ciò che si vede assume valore simbolico (nel bene o nel male). La pretesa che essa debba raccontare tutto è una finzione, è un pretesto per operazioni mirate. Anche se volessimo tralasciare la sua attitudine a snaturare gli eventi (di cui si può offrire solo una visione parziale), non si può dimenticare che la televisione decontestualizza i messaggi, cosa che non avviene nella realtà. Per maggiore chiarezza: in tv non possono comparire tutte le persone che ballano, ma vi possono (anzi, vi dovrebbero) approdare solo i migliori; se mostro un balletto durante una gara canora, il pubblico applaude; se lo mostro facendo scorrere sullo sfondo le immagini di un terremoto o della fame nel mondo, il pubblico rabbrividisce e prova sdegno.
I tre operai di Termine Imerese non meritavano di finire nel frullato melodico di Sanremo. Ma Costanzo, ringalluzzito dal rientro in Rai e forse debitore di qualche “omaggio”, doveva salire alla ribalta e dispensare quel mix di populismo, demagogia, ruffianeria, ironia di grana grossa, che lo ha reso popolare negli anni. Sul proscenio non c’era il buio di chi sa di perdere il lavoro, ma l’esibizione del cuoco mediatico, molto abile nel confezionare prodotti da bancarella rionale come bijoux da boutique. Forse, in altri Paesi, dove la teatralità ha luoghi deputati e non è pane quotidiano come in Italia, la furbata non sarebbe stata possibile, oppure sarebbe stata duramente stigmatizzata. Qui, invece, si teme di muovere critiche perché ‘o sentimiento, ‘a sceneggiata (nulla a che fare con i napoletani) sono lo sport nazionale, in cui tutti si cimentano prima o poi, sicuri di strappare consensi ed applausi.
Non solo. Da bravo giornalista con patente pluralistica, Costanzo ha dato la parola alle due opposte fazioni: a Bersani ed a Scajola. Il primo è stato subissato dai fischi, il secondo è stato applaudito e ne ha approfittato per un comizietto en passant (20 milioni di telespettatori sono una ghiotta occasione). Entrambi avrebbero fatto bene a sottrarsi o a pronunciare 4 parole 4, non di più, per pudore, per convenienza sociale, per decenza. La situazione di Termini Imerese è il frutto delle scelte opportunistiche della politica, delle pretese illogiche dei sindacati, dell’assistenzialismo di Stato che crea serbatoi di voti, del cinismo dei governanti che hanno guardato lontano quanto il loro mandato. Bersani e Scaloja avrebbero dovuto scusarsi con il Paese e tacere in assenza di promesse fattibili. Costanzo, invece, ha probabilmente pagato dazio ai suoi nuovi datori di lavoro: la sinistra, di cui si è sempre professato seguace (pur intascando soldi da Berlusconi, al quale non ha mai mosso serie critiche); la destra, che ora è al potere e sta blindando il suo primato.
E, così, lo spot pro-Costanzo ha riscosso la sua buona dose di ovazioni ed il bravo giornalista de sinistra ha fatto capire subito a chi comanda in Rai che egli sa abbaiare, ma che in fondo è buono (meglio, sa fare il buono) e non morde.
A proposito: il telespettatore comune dovrebbe chiedersi come mai Costanzo passi solo ora alla Rai. Trent’anni fa, sulla tv pubblica, si fece conoscere con il programma “Bontà loro” che importava in Italia il talk show già in voga negli Stati Uniti. Poi, ci fu l’incidente della P2 (era iscritto alla loggia segreta, assieme a Berlusconi e ad altri 900 prodi) che lo costrinse all’esilio televisivo. In seguitò approdò sulle reti della Fininvest, dove iniziò a produrre da solo i suoi spettacoli, rivenduti a colpi di miliardi a Mediaset, alla stessa Mediaset che continua ad acquistare le trasmissioni condotte dalla moglie, Maria De Filippi (così in gamba da sfornare gli ultimi due vincitori del Festival di Sanremo). Suona equivoco che il giornalista-coi-baffi torni in Rai dopo che Mediaset gli ha spento il “Maurizio Costanzo show”, relegando il conduttore in fasce orarie meno proficue. E’ legittimo sospettare che, come una nave in disarmo, Costanzo torni nel porto della Rai per trascorrervi una dorata vecchiaia a spese dei contribuenti? Perché, se il suo rientro è un evento, condurrà una striscia quotidiana intorno alle 14.30, cioè in una fascia oraria di minore ascolto? Dubbio maligno, ma anche plausibile, un sospetto da cui scaturisce rabbia se si pensa che la Rai osannante è la stessa che epurò Enzo Biagi (maestro di giornalismo), la stessa che fa sudare il contratto a Milena Gabanelli, la stessa che relega nel ruolo di ospite Marco Travaglio (antipatico finché si vuole, ma ben documentato).
Nella serata conclusiva di Sanremo, la gelatina cara a Costanzo (cioè quel minestrone con troppi sapori per averne uno, che mischia cronaca e spettacolo, lacrime e risate) stava diventando così indigesta che la paciosa Antonella Clerici è accorsa sul palco per ricordare a tutti che quello era il Festival di Sanremo e non il cucinino de noantri e di lor signori (i politici). Provvidenziali sono arrivati i consigli per gli acquisti, a chiudere il siparietto.

Povia al Festival di Sanremo 2010In precedenza, robusti spunti di pornografia erano stati offerti da Povia, reduce dal successo di “Quando i bambini fanno oh”, che non riesce a scollarsi di dosso la sindrome del grande autore defraudato. Lo scorso anno si buttò sui gay, dicendo che possono anche “guarire” e suscitando un vespaio di critiche e chiacchiere da anticamera di parrucchieria o barberia. Quest’anno è stato ancora più cinico, scrivendo una canzone sul caso di Eluana Englaro, la giovane donna in stato vegetativo a cui fu staccata la spina, dando la stura ai guitti di destra pronti a strapparsi i capelli per procacciarsi il voto cattolico. Anche in questo caso: se non si ha nulla di sensato o di nuovo da dire, a che pro trattare un argomento così delicato? Se si riesce soltanto a far scorrere acqua fresca su una piaga, perché non fare il taumaturgo su materie meno dolorose? Purtroppo, Povia sembra una di quei milioni di persone incapaci di accettare la propria mediocrità e, così, tenta ogni volta di dar lustro alla poca materia (grigia) nascosta sotto tanto crine. Si veste da profeta o da saggio e bracca lo scandalo. Chi abbocca parla delle sue provocazioni di bassa lega e chi non abbocca sospetta che Povia abbia detto qualcosa di intelligente perché, quando non si capisce un messaggio, tutti dubitiamo di non essere stati all’altezza di comprenderlo. Nel caso dell’orfano di “Quando i bambini fanno oh”, ci si tranquillizzi: la sua è solo una canzonetta furbetta, la cui mancanza di pudore (e di vera compassione umana) la trasforma in oscenità, in residuo gratuito di cui si può serenamente fare a meno.
A proposito di Povia, avrà mai versato i proventi dei diritti d’autore promessi per i bambini del Darfur (leggere qui: http://www.corriere.it/spettacoli/09_gennaio_27/povia_darfour_sanremo_io_donna_75dae6d8-ec6a-11dd-be73-00144f02aabc.shtml)?

Sul livello musicale dei vincitori – a parte la sponsorizzazione della Giovine Italia sull’inno dei Savoia cantato da Pupo, Emanuele Filiberto (lavorare no?) ed il bravo tenore Luca Canonici – qualcuno potrebbe invocare: aridatece Michele Pecora; era genuino e non conteneva scorie tossiche.

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