Terremoto L’Aquila, 4 condanne per crollo Casa Studente

16 Feb 2013 | Di | Categoria: Opinioni

La Casa dello Studente a L'Aquila, distrutta dal terremoto del 6 aprile 2009

Nella notte del 6 aprile 2009, a L’Aquila crollò anche la Casa dello Studente. Morirono otto ragazzi. A distanza di quasi 4 anni, alle ore 18 del 16 febbraio 2013 è stato emesso il primo verdetto per il cedimento di quella struttura che aveva già mostrato crepe durante lo sciame sismico protrattosi per mesi prima della grande scossa tellurica, a seguito della quale perirono 309 aquilani ed il capoluogo regionale abruzzese smise di esistere. Benché l’edificio fosse di costruzione abbastanza recente (risaliva agli anni ’60), i giovani ospiti avevano notato la comparsa di fessure nei muri e le avevano segnalate.

Condanne e capi d’imputazione

Dopo la condanna dei componenti della Commissione Grandi Rischi, avvenuta il 22 ottobre 2012, il Gup del Tribunale de L’Aquila (Giuseppe Grieco) ha ritenuto colpevoli quattro persone, infliggendo 4 anni di reclusione a tre imputati e 2 anni e 6 mesi ad uno degli accusati. In questo processo di primo grado, ci sono state anche 6 assoluzioni: 4 perché “il fatto non sussiste” e 2 per “non luogo a procedere”. Stralciata la posizione del progettista Claudio Botta, di 92 anni.

Le pene più pesanti sono state decise per Domenico Bernardino Pace, Pietro Centofanti e Tancredi Rossicone, che ricoprivano il ruolo di tecnici addetti ai lavori di restauro effettuati nel 2000; 2 anni e 6 mesi di carcere sono stati comminati a Pietro Sebastiani, tecnico dell’Azienda per il diritto agli studi universitari (Adsu), chiamato come collaudatore dei lavori. I capi di imputazione erano omicidio colposo, disastro colposo e lesioni.

Per i quattro condannati sono stati disposti anche l’interdizione da pubblici uffici per 5 anni ed il versamento di una provvisionale di 100.000 euro a ciascun genitore dei ragazzi morti nel crollo della palazzina di via XX Settembre e di 50.000 euro ad ogni loro fratello o sorella, per un totale di circa 2 milioni di euro da corrispondere alle parti civili.

Secondo l’accusa, i lavori avrebbero indebolito la Casa dello Studente, che presentava già vizi costruttivi all’epoca della sua edificazione. La tesi è stata confermata da Maria Giovanna Mulas, perito nominato dal Tribunale de L’Aquila e docente del Politecnico di Milano, che ha scritto una relazione di 1.300 pagine.

Assoluzioni e “non luogo a procedere”

Il Pubblico Ministero ha chiesto l’assoluzione per Luca D’Innocenzo, ex presidente Adsu; Luca Valente, direttore dell’Adsu nel 2009; Massimiliano Andreassi e Carlo Giovani, anch’essi tecnici durante il restauro del 2000, ma autori di interventi minori. La decisione del “non luogo a procedere” è stata presa per Giorgio Gaudiano, che negli anni ’80 acquisì la struttura da un privato per conto dell’Ateneo aquilano, e per Walter Navarra, che svolse in passato lavori minori sulla struttura; i due hanno aderito al rito ordinario.

Inizialmente, gli indagati erano 15. Di questi, 4 sono deceduti, mentre il ruolo di Botta è stato stralciato. Nell’aprile 2012, 8 imputati sono stati ammessi al rito abbreviato, a seguito del quale il giudice si è pronunciato per il rinvio a giudizio o per il “non luogo a procedere”.

Pubblico Ministero soddisfatto della sentenza

Questi i nomi degli studenti deceduti nel crollo dell’edificio: Luca Lunari, Marco Alviani, Luciana Capuano, Davide Centofanti, Angela Cruciano, Francesco Esposito, Hussein “Michelone” Hamade, Alessio Di Simone. Fra loro, tre minorenni.

Il pubblico ministero Fabio Picuti, lo stesso a cui si devono le condanne per la Commissione Grandi Rischi della Protezione Civile, si è dichiarato soddisfatto della sentenza ed ha precisato che agli imputati non è stato contestato «di essere stati concausa del crollo aumentando i carichi verticali», poiché tale ipotesi è stata smentita da una perizia; la concausa va individuata nel fatto che, mentre si procedeva agli interventi, non si provvedeva all’adeguamento della struttura alle misure anti-sismiche imposte dalla legge.

Secondo la pubblica accusa, il crollo della Casa dello Studente si sarebbe comunque verificato, ma ciò sarebbe avvenuto in maniera meno devastante e letale se fossero state rispettate le previsioni normative in materia di terremoti.

A dicembre condannato anche il preside

Si ricorda che il 27 dicembre scorso è stato condannato in primo grado anche il preside della Casa dello Studente, Livio Bearzi, a cui sono stati inflitti quattro anni di reclusione e l’interdizione per cinque anni dai pubblici uffici, oltre all’obbligo di versare una provvisionale di 200.000 euro alle parti civili. Nello stesso processo era stato assolto il dirigente provinciale Paolo Mazzotta. Gli imputati erano accusati di omicidio colposo e lesioni colpose.

Botta a risposta fra accusa e difesa

Prima della lettura della sentenza, l’avvocato Mercurio Galasso (difensore di Pace, Centofanti e Rossicone) nella sua arringa ha chiesto l’assoluzione con formula piena per i suoi assistiti ed ha detto «Abbiamo sempre rispettato il dolore, ma non vogliamo essere capri espiatori di nessuno». Inoltre, riferendosi al Pm Picuti, ha aggiunto: «quando è stata costruita la Casa dello studente, lui aveva i pantaloncini corti, ma io ero già avvocato a Napoli». Dal canto suo, il Pubblico Ministero ha sottolineato di aver interpretato bene la normativa, perché «Centofanti, Rossicone e Pace avrebbero dovuto per legge procedere all’adeguamento sismico del fabbricato (…) Bastava che i tre imputati avessero preso visione del progetto dell’edificio e si sarebbero accorti che era un castello di carte». Il consulente d’ufficio, Maria Gabriella Mulas, ha evidenziato il fatto che i ragazzi deceduti si trovassero nelle stanze attigue alle pareti tagliafuoco (la cosiddetta parete Rei), sistemate dai tre imputati. Per quanto riguarda Sebastiani, Picuti ha rilevato che «i lavori sui quali era stato chiamato come collaudatore, non erano di restauro o di risanamento, ma di ristrutturazione che, dunque, imponeva la verifica statica dell’immobile, avvenuta solo dal punto di vista amministrativo e non sul campo».

I familiari delle vittime delusi dalla sentenza

Come già avvenuto in precedenza, il pubblico presente in aula ha ascoltato in silenzio la lettura del verdetto. Tuttavia, i parenti delle vittime non hanno nascosto la propria delusione per una decisione ritenuta non equa. Secondo Annamaria Cialente che ha perso il figlio, Francesco Esposito, «se avessero chiuso la Casa dello Studente, nessun ragazzo sarebbe morto. I responsabili della struttura avrebbero dovuto cacciare via tutti i ragazzi, perché tutti sapevano dei problemi di stabilità e strutturali della residenza universitaria». Silvana Cialente, zia di Francesco, ha aggiunto: «I giovani hanno interessato alla problematica anche i tecnici che però hanno risposto “dormite sonni tranquilli”. Ora gli otto giovani dormono sonni tranquilli».

Il commento del sindaco de L’Aquila

Massimo Cialente, sindaco de L’Aquila dal 2007, ha così commentato la decisione dei giudici di primo grado: «E’ stato un processo lungo, attento. Chiaramente chi ha sbagliato a fare i lavori, anche perché il progetto era sbagliato, è giusto che ne risponda alla legge; è giusto che la giustizia faccia il suo corso. L’unica cosa che spero è che questa sentenza possa in parte, e ripeto in parte, se mai possibile, restituire un minimo di serenità alle famiglie dei ragazzi. (…) Questa sentenza, come probabilmente quelle che seguiranno per altri crolli ingiustificabili, credo abbia un valore più ampio di questa vicenda; soprattutto, credo possa richiamare la massima attenzione sul fatto che gli interventi sbagliati di costruzione o ristrutturazioni, come in questo caso, portano stragi, come successo all’Aquila in occasione del sisma».

Il video sulla Casa dello Studente, girato poche ore dopo il terremoto del 6 aprile 2009

Alcuni commenti dopo la lettura della sentenza

Commento dell’autore del post: note a margine ignorabili

I magistrati de L’Aquila dissero subito che i colpevoli avrebbero pagato, se fossero state accertate responsabilità penali in relazione alla morte di centinaia di aquilani. Un po’ alla volta, passo dopo passo, i processi si concludono e vengono emesse delle condanne.

In proposito, è giusto ricordare Alfredo Rossini, il procuratore della Repubblica dell’Aquila, deceduto il 28 agosto scorso a 72 anni, a causa di una emorragia cerebrale.

Furono Rossini ed il sostituto procuratore Fabio Picuti ad avviare subito, in un tribunale ancora inagibile, i grandi processi come quello alla Commissione Grandi Rischi della Protezione Civile, oltre alle 189 inchieste sui crolli in cui perirono le persone. «Il presidente della Camera Gianfranco Fini ha ragione quando afferma che l’accertamento delle responsabilità è un’esigenza primaria del Paese; bisogna uscire dalla logica della responsabilità diffusa che finisce per non essere di nessuno»: questa fu una delle dichiarazioni del magistrato, che evidenziarono la volontà di andare avanti con decisione e senza compromessi.

Benché fosse malato di tumore da tempo ed il suo mandato fosse scaduto il 5 agosto, Rossini rassicurò tutti i pubblici ministeri dicendo che sarebbe rimasto al lavoro fino all’inizio del nuovo anno, per effettuare di persona il passaggio di consegne al suo successore. La morte glielo ha impedito, ma i procedimenti sono andati avanti, confermando, nel caso della Commissione Grandi Rischi, le ipotesi accusatorie da lui formulate.

E’ vero che gli esiti giudiziari delle inchieste hanno portato a condanne giudicate troppo miti da alcuni, me compreso. Quattro anni di carcere sembrano una pena quasi irrisoria quando sono correlati alla morte di 8 ragazzi nella Casa dello Studente, ragazzi che avevano protestato perché temevano per la loro incolumità, ma che vennero sbrigativamente rassicurati. Tuttavia, bisogna ammettere che la macchina della giustizia è complessa, soprattutto in Italia, dove leggi, leggine, sconti e funambolismi insidiano il principio della certezza del Diritto. Così come si rimprovera agli scienziati di travisare la sentenza sulla Commissione Grandi Rischi e di discettare senza avere adeguate cognizioni in materia giuridica, è necessario riconoscere che certi verdetti vanno accettati, nonostante il nostro senso di giustizia si ribelli, perché le ragioni di una decisione in tribunale rientrano in professionalità specifiche e le valutazioni competono ai magistrati. La Procura de L’Aquila non può essere accusata di lassismo o di eccessiva indulgenza; ha fatto tutto ciò che le è stato possibile per punire i colpevoli. Se le richieste di Picuti sono sempre apparse forse troppo prudenti, non si può commettere lo stesso errore di chi sale in cattedra senza avere nulla da insegnare. E si deve capire… perfino nel caso della richiesta di archiviazione per le posizioni di Guido Bertolaso e dell’assessore Daniela Stati in merito alla riunione della Commissione Grandi Rischi del 31 marzo 2009, avanzata al Gip il 30 gennaio 2013 dallo stesso Picuti, una richiesta difficilmente digeribile dal comune cittadino che intravvede – perlomeno – responsabilità morali in capo all’ex capo della Protezione Civile.

In fondo, lo stigma della colpa, la sanzione della società contro chi ha commesso un reato (attenzione, si parla ancora di sentenze di primo grado), c’è stata ed il merito va ascritto ai magistrati aquilani, inquirenti e giudicanti. Fino ad ora, la magistratura è stata la sola a dimostrare considerazione e rispetto per la tragedia che ha colpito L’Aquila il 6 aprile 2009. Tutte le altre istituzioni hanno ignorato la città, si sono servite del suo dramma, hanno strumentalizzato le macerie, hanno anteposto piccoli bisogni al desiderio di giustizia.

E’ stato come se si fosse voluto isolare l’evento, come se si fosse tentato di circoscrivere il disastro ad una regione montuosa del centro Italia ed al suo capoluogo, cancellato dalla realtà ma ancora presente sulle cartine geografiche. A capire realmente il dolore muto degli aquilani è stata solo la magistratura di una ex piccola città orgogliosa del suo passato e delle sue mille attività: si pensi al Teatro Stabile, ai Solisti Aquilani, all’Università nata nel 1458, al polo elettronico nazionale, alla Perdonanza Celestiniana, ai Laboratori Nazionali del Gran Sasso, ecc.. “Immota manet” è la scritta che campeggia sullo stemma cittadino e che fa riferimento ai grandi terremoti del passato; la stessa frase si leggeva sui muri di numerosi edifici del centro storico.

Su questa gente, silenziosa ma tenace, si è speculato. Si possono ricordare le parole dell’europarlamentare della Lega Nord, Mario Borghezio, che definì l’Abruzzo un «peso morto». Oppure si possono rammentare le macerie usate a mo’ di cartolina dal Berlusconi che volle farsi anfitrione in occasione del G8, quando la sede del summit venne spostata dagli sperperi della Maddalena alle pendici del Gran Sasso, perfetta cornice per una recita melodrammatica.

Ma gli insulti non si sono risolti solo in parole e propaganda. Quando gli aquilani andarono a protestare a Roma furono presi a manganellate. Donne, anziani, ragazzi gridarono la loro rabbia per una ricostruzione garantita e mai realizzata e come interlocutori trovarono solo i bastoni delle Forze dell’Ordine (incolpevoli, sia chiaro), perché i politici non avevano alcun interesse a dialogare con il simbolo vivente delle loro strumentalizzazioni. Quando la gente fu stanca di vedere il centro ancora ingombro di macerie, afferrò le carriole e si mosse per agire senza aspettare, corciandosi le maniche per ripulire la propria “casa”. Ma, nel giorno delle elezioni del marzo 2010, la manifestazione del popolo delle carriole si trovò contro la burocrazia del potere: una decina di attrezzi sequestrati e 100 volontari “anti-macerie” denunciati dalla Polizia, come annunciato dal prefetto Franco Gabrielli. E’ vero che la legge vieta la propaganda politica in occasione delle consultazioni elettorali, ma è anche vero che lo Stato artefice delle regole deve essere il primo a rispettarle, ad esempio avviando una ricostruzione rimasta promessa.

E poi, come seppellire nella memoria il caso del prefetto Giovanna Maria Iurato che confidò ad un collega di aver riso pensando alla sua finta commozione durante la visita allo studentato dove morirono 8 ragazzi nel 2009, confidenza resa pubblica da una intercettazione telefonica? riporta alla mente il compiacimento della cricca di costruttori, allegra per le macerie create dal sisma poco prima della loro telefonata, pregustando i futuri guadagni. C’è da stupirsi se si legge degli aquilani colpiti da una sindrome metabolica che altera lo stato fisico e psicologico? Ricordando Cicerone, viene da chiedersi fino a quando si abuserà della loro pazienza.

Come si pensa possa aver reagito un abruzzese assordato dalla canea scatenatasi ad ottobre, quando il Tribunale emise le prime condanne eccellenti a carico dei componenti della Commissione Grandi Rischi? oppure quando il ministro Corrado Clini dimostrò di essere così ignorante o sfarfallante da accostare il nome di Enzo Boschi, ex presidente dell’Ingv, a quello di Galileo («Unico precedente è quello di Galileo»), accostamento che in una intervista lo stesso Boschi attribuì al New York Times, ma che – in realtà – venne ripetuto dalla stampa internazionale soltanto mettendolo in bocca a Clini? o, ancora, quando l’attuale capo della protezione civile, Franco Gabrielli, a proposito della recente evacuazione in Garfagnana, ha parlato di «frutto avvelenato della sentenza de L’Aquila», senza aver letto o capito le motivazioni della sentenza? Alla Garfagnana sono stati predisposti punti di raccolta, mentre a L’Aquila si invitò la cittadinanza a bere un bicchiere di vino.

Per la prima volta, i familiari delle vittime vedevano riconosciuto a livello “istituzionale” ciò che era già sulla bocca di tutti da anni e cioè che il rischio era stato sottovalutato; per la prima volta sentivano soddisfatto il bisogno di giustizia e si trovavano subito di fronte ai tentativi dei demolizione da parte di scienziati isterici (la notizia della condanna fu riportata da innumerevoli testate internazionali, ma la pubblicazione delle motivazioni della sentenza ha avuto un’eco 10 volte inferiore, come verificabile tramite Google) e di importanti esponenti dello Stato. Come può reagire un aquilano o anche un semplice abruzzese nel constatare che lo zelo a difesa di singoli è inversamente proporzionale all’impegno riversato nel proteggere L’Aquila nel 2009 o per ricostruirla ora? Come si fa a non indignarsi leggendo sulla prima pagina del sito dell’Ingv (Istituto Nazionale di Geofisica e Vulcanologia) il comunicato del suo Presidente Prof. (le maiuscole sono sue, in spregio all’ortografia) Stefano Gresta che afferma: «Si è (invece) focalizzata l’attenzione sulla previsione a brevissimo termine, nonostante l’acclarata impossibilità di prevedere l’accadimento di una forte scossa sismica in termini di ora, luogo ed intensità; impossibilità che non esclude che il terremoto possa verificarsi. Al contrario di quanto affermato nelle motivazioni riteniamo che la strada principale per ridurre il rischio sismico sia la prevenzione in termini di riduzione della vulnerabilità degli edifici. La sentenza sostiene che gli scienziati avrebbero potuto sapere ciò che stava per accadere ma non si sarebbero curati, o meglio, avrebbero volutamente evitato di comunicare adeguatamente il rischio». Evitando di soffermarsi sul fatto che, da un punto di vista giuridico, si è capito ben poco o nulla delle motivazioni della sentenza, ci si chiede: Gresta a che titolo parla? L’Ingv non è stato chiamato in causa come Istituto; i giudici non hanno sanzionato l’ente, ma Giulio Selvaggi, allora direttore del Centro nazionale terremoti dell’Ingv. Gresta come si permette di usare il sito web dell’Istituto per emanare un “suo” comunicato stampa, tradotto pure in inglese? La sua opinione – o anche quella di tutti i dipendenti dell’Ingv – non è quella dell’Ingv. Considerati l’uso personalistico del sito e le illazioni sulla sentenza, si può azzardare che Gresta non afferri la differenza, ma questa c’è e non è da poco.

I cittadini, e gli aquilani in particolare, meritano ed esigono rispetto. Con le tasse, la popolazione paga esperti ed amministratori affinché svolgano il proprio lavoro e non perché si accasino in questa o quella istituzione. E’ stata proprio questa concezione domestica dei doveri di un dipendente statale (lo è anche un premier) a farsi concausa della tragedia aquilana. Gli abruzzesi accettano le decisioni delle istituzioni e sono gente che sa aspettare. Ma non potranno sopportare all’infinito soprusi, manipolazioni, scorrettezze e sciocchezze sulla loro pelle.

Per avere un’idea, solo un’idea, di quella tragedia, ci si colleghi alla seguente pagina:
http://racconta.kataweb.it/terremotoabruzzo/index.php.

Tags: , ,

Lascia un commento